mercoledì 22 aprile 2009

Niente sgombero per i rifugiati "Lo Stato rispetti i nostri diritti"

A quelli della barca abbiamo dato gli ultimi soldi, qui non abbiamo né lavoro né casa Non è vita questa Ilaria Carra Vivevo per strada con mio figlio di un mese, nato qui in Italia Vorrei dargli un futuro migliore del mio Il giorno dopo l´occupazione il cancello dell´ex residence di Bruzzano è rimasto sempre aperto. Ai 180 profughi che venerdì si sono stabiliti nell´edificio privato di via Senigallia abbandonato da più di due anni, se ne sono aggiunti altri arrivati dall´hinterland, da Torino, perfino da Roma. La voce si è sparsa velocemente. Passa ogni tanto, la polizia. Butta un occhio che tutto sia tranquillo mentre è in corso la valutazione, caso per caso, degli occupanti, che entro domani al più tardi dovrebbe concludersi. Il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, avverte: «Un conto è dare ospitalità a chi ne ha diritto, un altro è trasformarsi nel Paese di Bengodi dando ospitalità a clandestini che arrivano da ogni parte d´Italia. In città già si assistono 300 profughi con otto milioni all´anno». Replica Luciano Muhlbauer, consigliere regionale del Prc: «De Corato mente, non sono clandestini ma profughi fuggiti da persecuzioni e guerre». Nel frattempo la Caritas si dice pronta a intervenire. «Ma le istituzioni locali - chiede il direttore don Roberto Davanzo - non devono mettere la testa sotto la sabbia». L´ex residence nel �91 aveva accolto i primi profughi albanesi, mentre nel �76 l´altra ala dell´hotel Leonardo da Vinci era diventata la casa degli sfollati dalla nube tossica di Seveso. «Chiediamo allo Stato di rispettare i nostri diritti di rifugiati politici, perché il governo italiano ci ha lasciato come spazzatura», scrivono gli immigrati in una nota aiutati dagli esponenti del centro sociale Cantiere. Johanes Ganzbu e la compagna se ne stanno nel cortile dietro al residence, seduti sull´erba. Sono ben vestiti, gli occhi stanchi, cerchiati di nero. Meglio stare svegli, non si sa mai cosa può accadere. Johanes ha 25 anni, è nato a Kassala, in Sudan. Ma quasi subito s´è ritrovato a vivere ad Asmara, capitale dell´Eritrea. A sedici anni già imbracciava un fucile, ha fatto il soldato e per due anni ha combattuto tra gli spari di una guerra civile che ha causato decine di migliaia di morti. «Poi Sudan», ricorda Johanes. E un lavoro da meccanico, quindi autista per una compagnia turca di Khartoum. Anche la sua famiglia lo ha raggiunto in Sudan, in fuga dalla guerra, come lui. Ma il sogno era l´Italia, già altri che conosceva ci avevano provato. Un viaggio fino a Tripoli lo ha avvicinato alle nostre coste. Poi gli accordi con «quelli della barca», gli scafisti. Tre giorni di viaggio in 360 su un´unica carretta. Giorno e notte, 1.400 dollari, tutti i risparmi. L´arrivo a Lampedusa, un permesso di soggiorno rilasciato a Trapani che scadrà nel 2011 e lo status di rifugiato politico. La compagna, Tsehay, che prima è rimasta in Sudan e poi lo ha raggiunto qui, oggi è al suo fianco. «Solo un aiuto - chiede - no lavoro, no casa, no soldi. Niente. Non è vita questa». Dentro l´edificio, in una stanza a piano terra, c´è invece Ether, in fuga dall´Eritrea. Ha 22 anni, tra le braccia allatta Abdel, un piccolo di un mese, nato qui a Milano a casa di conoscenti, il padre è rimasto in Sudan. «Vivo per strada con il mio bambino di un mese, nato in Italia, aiutatemi per dare a lui un futuro migliore del mio». Non tanto per lei, ma per il piccolo che stringe, che da due notti dorme con lei in una stanza di quel palazzone di cemento, centinaia di miniappartamenti in rovina in cui ogni profugo ha già scritto a pennarello nero il proprio nome fuori dalla tenda di plastica montata come fosse una porta.

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