domenica 26 luglio 2009

La chiamate integrazione ma è assimilazione

M. Flaminia Attanasio INTERVISTA Patrocinata dalla Provincia di Roma parte a settembre Biblioteche nel mondo. Una goccia nel mare del farraginoso rapporto delle istituzioni con le esigenze degli immigrati. L’analisi della scrittrice eritrea Ribka Sibhatu. «Vogliamo essere noi attori del nostro destino, vogliamo sentirci nuovi cittadini, non immigrati. Io mi sento a casa». Queste le parole della scrittrice eritrea, consulente regionale e comunale per l’immigrazione, Ribka Sibhatu, alla presentazione dell’iniziativa Biblioteche nel mondo a Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma. Il progetto, promosso dall’assessorato provinciale alle Politiche culturali, partirà a pieno regime da settembre con lo scopo di favorire l’integrazione utilizzando le biblioteche come luogo d’incontro e scambio interculturale, e si rivolge particolarmente a coloro i quali sono nati in Italia da genitori immigrati e alle immigrate che rivestono il ruolo di tate, badanti o colf. Proprio in materia di colf e badanti, mai come ora così attuale, l’autrice ha aggiunto che «è uno strano terrore quello che gira intorno agli immigrati: ci si affida ciò che c’è di più caro, come i bambini e gli anziani, e poi ci si distrugge». Terra ha incontrato Ribka Sibhatu in occasione dell’evento romano. Dal suo libro Il cittadino che non c’è - L’immigrazione nei media italiani edito da EdUP (2004) emerge che i media italiani hanno un grosso ruolo nell’orientare l’opinione pubblica. In particolare, riferendosi al complesso fenomeno migratorio, lei afferma che (tranne sporadiche eccezioni) i media si occupano ben poco della realtà quotidiana dei migranti, del loro inserimento e della loro integrazione. Quanta responsabilità hanno ancora i media in questo senso? Cos’è cambiato dal 2004 in qua? Non è cambiato nulla e anzi le cose sono peggiorate sebbene ci siano alcuni giornali che cominciano a voler far conoscere il fenomeno agli italiani oltre ad averne preso coscienza. Ma la maggior parte dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare le televisioni, continua ad accanirsi a seconda delle campagne elettorali. Alle ultime europee per esempio si è parlato tanto di Lampedusa, di espulsioni, quando si sa che in realtà solo il 15 per cento circa degli immigrati arriva via mare e il restante 85 per cento arriva in altro modo, quindi era tutta una propaganda a fini elettorali e questo è grave anche perché la maggior parte degli italiani segue la televisione, che ha un potere di orientamento, nel bene e nel male, molto forte. Perché secondo lei spesso nei media si tende a parlare dell’immigrazione come problema e non come risorsa, come investimento per il futuro? Paura del “diverso”? Sicuramente sì, ma anche perché è una scorciatoia: l’immigrazione è un fenomeno complesso che richiede investimenti, lungimiranza e conoscenza, soprattutto dell’altro, e non tutti ce l’hanno. Far capire veramente ciò che accade riguardo al fenomeno migratorio vuol dire lungimiranza, e chi usa l’immigrazione come obiettivo negativo pensa solo al suo potere di adesso senza pensare al futuro del Paese. Nello stesso testo lei traccia una differenza tra integrazione e assimilazione. Ce la spieghi. L’integrazione è quando ci si integra a vicenda, reciprocamente, con scambio, interazione e trasformazione reciproche. L’assimilazione invece è unilaterale, è etnocentrismo, è rendere l’altro uguale a sé senza crescere a vicenda perché è dalle differenze che nasce la crescita. Data questa differenza, secondo lei gli immigrati in Italia sono integrati o assimilati? C’è più assimilazione e mala assimilazione per una questione di cittadinanza: l’Italia è in ritardo con il regolamento sulla cittadinanza e, di conseguenza, con la valorizzazione delle culture d’origine. Più si conosce la propria storia più si è in grado di capire il presente e progettare il futuro, ma se si è tagliati fuori dal presente e dal passato come si può vedere un futuro? In Francia per esempio c’è sì assimilazione ma l’immigrato è inglobato come cittadino, non come straniero, qui invece non c’è neanche questo riconoscimento d’appartenenza. Nel nostro Paese le donne migranti si trovano spesso a essere segregate nei lavori di cura e assistenza. Si tratta di integrazione o assimilazione e sfruttamento? C’è tutto. Moltissime di queste donne hanno una laurea in tasca e potrebbero contribuire alla crescita del Paese con relativi vantaggi, ma per mancanza di politiche sociali adeguate sono sfruttate e sono sprecati i cervelli. Perché secondo lei la maggior parte delle donne che migrano in Italia vengono impiegate prevalentemente nei lavori di cura? Doppia discriminazione? Da un lato per il fatto di essere immigrata e dall’altro per il fatto di essere donna? Ma certo. Se dovessimo fare una piramide, in quasi tutte le società chi sta sotto sono le donne, con tutte le rispettive differenze, soprattutto tra una donna e l’altra. Poi è più facile trovare questi lavori “dequalificati” che non quelli qualificati perché per svolgerli non serve avere una grossa conoscenza della lingua. Inoltre, spesso queste donne non hanno asili nido a loro portata quindi si trovano costrette a ricorrere a qualcuno sebbene la maggior parte di loro preferisca il lavoro a ore. Cosa ne pensa dell’emendamento circa la regolarizzazione di colf e badanti? Un modo per tutelare tutte quelle lavoratrici sottopagate e far emergere il loro lavoro finora sommerso, o anche un modo per continuare a sfruttarle e per tappare malamente la carenza di servizi presente in Italia? Questa regolarizzazione è da una parte positiva perché consente a molte donne di uscire dall’incubo, non solo del lavoro sommerso ma anche e soprattutto del ritorno al loro Paese d’origine per via della legge sulla clandestinità. Bisogna pensare, infatti, anche alle rifugiate politiche per le quali tornare al proprio Paese è inconcepibile. Dall’altra parte questa regolarizzazione non rientra di una politica lungimirante e ad ampio raggio perché, oltre a essere contraddittoria, è solo per tappare i bisogni, per sfruttare una manodopera, volta a sopperire una mancanza. Il governo non potrebbe almeno cercare di risolvere la carenza di servizi in un altro modo e dare la possibilità a queste donne di fare anche altro? Questo sarebbe un paradiso. Purtroppo c’è una mentalità in base alla quale ciò che costa meno si può sfruttare tranquillamente senza investire. Nel suo libro asserisce che durante il periodo del colonialismo italiano in Eritrea mancavano la diretta comunicazione e la libertà di parola. Di fatto oggi in Italia gli immigrati, e in particolare le donne, hanno la libertà di parola? Direi di no. Si stanno aprendo nuove finestre ma la stragrande maggioranza non ha né comunicazione né diritto di parola e, se parla, non è ascoltata; non può neanche parlare perché non ha i documenti in regola, perché, appunto, per rinnovare il permesso di soggiorno ci vogliono mesi. Non c’è parola, solo giri e fatica.

Lavori forzati e torture per gli eritrei deportati dalla Libia

Le testimonianze di alcuni eritrei respinti in Libia in questi ultimi anni dal governo italiano, a spese del governo italiano e con mezzi italiani. E ridotti in schiavitù. L’Eritrea sta investendo molto nel turismo. Lungo il mar Rosso ad esempio, a metà strada tra Massawa e Assab, c’è un albergo a Gel’alo che nessun turista dovrebbe perdersi, specialmente se italiano. Se non altro perché è stato costruito da esuli eritrei costretti ai lavori forzati dopo essere stati arrestati sulla rotta per Lampedusa e rimpatriati dalla Libia su voli finanziati dall’Italia. Proprio così. Non chiedete spiegazioni all’ambasciata eritrea, potrebbero fraintendere. Secondo la propaganda della dittatura infatti, quell’hotel è frutto del coraggio della gioventù eritrea, e in particolare delle forze armate, dal 2002 impegnate in un programma di sviluppo del paese, denominato Warsay Yeka’alo. Noi invece le spiegazioni siamo andate a chiederle agli unici tre che da quell’inferno sono riusciti a scappare e che oggi vivono in Europa. Hanno accettato di parlarci, ma sotto anonimato e a patto di non svelare la città dove oggi vivono sotto protezione internazionale. I fatti risalgono al maggio del 2004. Un vecchio peschereccio diretto a Lampedusa con 172 passeggeri, in maggior parte eritrei, invertì la rotta dopo essere finito alla deriva e si arenò davanti alla costa libica. Nel panico generale si dettero tutti alla fuga, ma la maggior parte furono arrestati. Dopo un mese nel carcere di Misratah, vennero trasferiti in una prigione di Tripoli. D. aveva ancora le piaghe delle ferite aperte. Insieme a due amici erano stati picchiati e torturati per tre giorni in cella di isolamento per un fallito tentativo di evasione. Un giorno di buon mattino si presentò un’unità speciale dell’esercito. “Caricarono un gruppo di eritrei su un camion, nessuno di noi immaginava cosa sarebbe accaduto, pensavamo si trattasse dell’ennesimo trasferimento”. E invece no. Erano diretti all’aeroporto militare di Tripoli. Dove ad attenderli c’era un aereo della Air Libya Tibesti. Era il 21 luglio del 2004. Nel giro di 48 ore, sotto l’occhio discreto dell’ambasciatore eritreo a Tripoli, partirono altri tre aerei, che rimpatriarono un totale di 109 esuli. Ad attenderli all’aeroporto di Asmara c’era l’esercito. Dopo un rapido appello furono caricati su dei camion militari e portati a Gel’alo, sul mar Rosso. Non era un carcere, ma un campo di lavori forzati. Fuori città, in una zona arida e isolata. La struttura era circondata da un fitto bosco di arbusti spinosi, che rendevano impossibile ogni tentativo di fuga. Mantenuti sotto strettissima sorveglianza, ogni giorno marciavano scortati dai militari armati per lavorare al cantiere del nuovo albergo di Gel’alo, simbolo del progresso dell’economia del Paese. I prigionieri erano circa 500. C’erano i cento deportati dalla Libia e i duecento deportati da Malta due anni prima, nel 2002. Gli altri erano disertori dell’esercito arrestati lungo la frontiera mentre tentavano di fuggire clandestinamente dall’Eritrea verso il Sudan. La giornata tipo iniziava con l’appello, alle cinque del mattino e poi dalle sei al lavoro nei cantieri, sorvegliati e bastonati dai militari, scalzi e denutriti, in una delle zone più calde del deserto eritreo, dove le temperature sovente superano i 45°. Per pranzo e per cena il menù era pane e acqua. Rimasero in quelle condizioni per dieci mesi, fino al 30 maggio del 2005. Dopodiché furono trasferiti nel campo di addestramento militare di Wi’yah per essere reintegrati nell’esercito, per il servizio di leva a vita. Tutto questo senza essere autorizzati a ricevere visite o telefonate dei propri familiari, tenuti all’oscuro del loro destino. La loro storia è confermata da un quarto testimone. Si tratta di uno dei 232 esuli eritrei rimpatriati da Malta nel settembre del 2002 e intervistato dalla documentarista eritrea Elsa Chyrum nell’agosto del 2005. Testimone oculare della morte per stenti di alcuni dei prigionieri per la durezza delle condizioni di lavoro, la denutrizione e la mancanza di cure. “Tutti sanno – dice – che Alazar Gebrenegus, del gruppo dei deportati da Malta, morì per la mancanza di cure, implorando un’arancia”. E se la fame, la sete e il caldo non erano abbastanza, continua il rifugiato, “i prigionieri erano continuamente picchiati”. Anche questa notizia trova conferma in una terza fonte. Nel rapporto “Service for Life”, pubblicato lo scorso 20 aprile da Human Rights Watch, c’è un intero capitolo dedicato alle torture. Elicottero, otto, ferro, Gesù Cristo, gomma. I nomi in italiano delle tecniche di tortura lasciano supporre che siano eredità delle nostre forze coloniali. Il rapporto conferma che un gruppo di 109 eritrei venne rimpatriato nel 2004 dalla Libia e si sofferma anche sul destino dei rimpatriati da Malta nel 2002. Vennero rinchiusi nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Dahlak Kebir, in celle sotterranee, in condizioni di estremo sovraffollamento, e tenuti alla fame. Quasi tutti i 3.000 eritrei sbarcati nel 2008 in Italia hanno ottenuto un permesso di soggiorno di protezione internazionale. Eppure l’Italia fa di tutto per bloccarli prima. E non è soltanto la storia dei 76 eritrei respinti in Libia lo scorso primo luglio. Né dei 700 che da tre anni sono nel carcere di Misratah, in Libia. È una storia che inizia proprio con E., D. e M. Già, perché i quattro voli che deportarono il gruppo di 109 rifugiati furono commissionati e pagati dall’Italia, all’interno degli accordi di cooperazione contro l’immigrazione firmati nel 2003 con Gheddafi. Lo dice un documento riservato della Commissione Europea. C’era anche un quinto volo, ma non arrivò mai a destinazione. Perché fu dirottato. Proprio così. Era il 27 agosto del 2004. Gli 84 passeggeri presero il controllo dell’aereo e atterrarono a Khartoum, dove vennero riconosciuti come rifugiati politici dalle Nazioni Unite. Peccato, avrebbero potuto contribuire anche loro al Warsay Yeka’alo Program tratto da http://fortresseurope.blogspot.com

domenica 12 luglio 2009

ERITREA: L’ALTRA FACCIA DELL’INDIPENDENZA

di Eugenio Roscini Vitali Le condizioni globali dell’Eritrea di oggi si possono riassumere in una sola parola: tragedia. E non potrebbe essere altrimenti visti gli indicatori che concorrono a trasformare questo triste primato in un incubo, veri e propri record di povertà, fame, repressione e disperazione che fanno di questo Paese un caso quasi unico, un dramma che trova le sue origini nei sogni di libertà di un popolo tradito e nelle promesse che un leader non ha mai mantenuto. A quasi vent’anni dalla sua indipendenza, l’Eritrea non è altro che il prodotto delle decisioni e delle azioni politiche dell’uomo che ne ha disegnato i destini, di colui che ha combattuto perchè potesse diventare una nazione libera ed indipendente e che l’ha poi trascinata in una devastante guerra di confine, di chi l’ha costretta ad anni di immobilità diplomatica e l’ha portata all’isolamento totale, del suo primo ed unico presidente, di Isaias Afewerki. Anche se la comunità internazionale ne riconoscerà lo status di nazione solo dopo due anni, di fatto l’Eritrea ottiene l’indipendenza dall’Etiopia nel maggio 1991, al termine di una lotta politica e militare durata trent’anni. Quando nel 1960, al Cairo, Idris Muhammad Adam e Hamid Idris Awate danno vita al primo movimento eritreo di liberazione, sono già cinquant’anni che nel resto del continente africano si combatte contro il colonialismo. In effetti, una volta disciolta l’Africa orientale italiana, per gli eritrei il vero problema non è l’indipendenza ma l’annessione imposta da Addis Abeba, che considera la regione costiera come parte integrante dell’Impero. A stabilirlo è stata la Risoluzione ONU numero 390 del 2 dicembre 1950, con la quale Eritrea ed l’Etiopia entrano a far parte di una federazione all’interno della quale Asmara gode di competenze limitate. Un governo federale che rappresenta “un espediente transitorio in vista del ricongiungimento alla madrepatria di una terra irredenta e finalmente liberata” e che in qualche modo ripaga gli etiopi per i torti subiti durante il colonialismo. E’ sulla base di queste affermazioni che nel 1962, con un atto puramente coercitivo, il Negus Hailé Selassié annette l’Eritrea all’Impero Etiope ed è così che l'opposizione, organizzatasi nel Fronte di Liberazione Eritreo (ELF), decide di passare alla lotta armata. Una guerra che durerà trent'anni e che per trent’anni, prima contro la monarchia e poi contro la dittatura militare, terrà unite la resistenza etiope e quella eritrea in percorso comune che si concluderà con la caduta della giunta istituita nel 1974 dal Colonnello Menghistu Hailé Mariam. Da parte eritrea, a guidare la resistenza è Isaias Afewerki, universitario in ingegneria che nel 1966 entra nel Fronte di Liberazione Eritreo e nel 1973, insieme ad Osman Saleh Sabbe, da vita al Fronte Popolare di Liberazione Eritreo, di cui diventerà leader nel 1987. La scissione, principalmente dovuta a posizioni ideologiche maggiormente rivolte al socialismo, permetterà ad Afewerki di aumentare il suo peso all’interno dell’organizzazione e, con l’aiuto del Fronte di Liberazione del Tigray di Meles Zenawi, di estromettere l'ELF dalla scena politica eritrea. Cacciato Menghistu, nel 1993 l'Eritrea diventa uno Stato sovrano: a consentirlo è la nuova Etiopia di Zenawi e a volerlo è il popolo eritreo che esprime la sua volontà attraverso un referendum. Da qui alla fine di un sogno il passo è breve: successore e sintesi dei movimenti armati che hanno combattuto per la libertà e l’indipendenza è il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, partito unico presieduto da Afewerki ed espressione di un governo fortemente autoritario che a più riprese post pone lo svolgimento di elezioni politiche e di fatto non permette che la Costituzione, ratificata nel 1997, entri mai in vigore. La posta in gioco non cancella però l’ottimismo di un popolo abituato a soffrire e gli eritrei giurano così di costruire uno Stato libero, dove la coesione sociale e il lavoro devono diventare una ricchezza comune ed un argine contro ogni forma corruzione, criminalità e discriminazione, etnica e religiosa. Sogni che nell’arco di breve tempo si infrangono tra le rovine del villaggio etiope di Badme: un ciclo di crisi che a turno coinvolge il Sudan, lo Yemen e l’Etiopia e che raggiunge il suo apice nel 1998 con una guerra che in 31 mesi causa circa 70 mila vittime e quasi 100 mila profughi. Gli effetti del conflitto con l’Etiopia e il modo autoritario con il quale Afeworki governa il paese portano ben presto l’Eritrea al collasso economico e sociale; condizioni di forte arretratezza che mettono la popolazione in situazioni di forte rischio umanitario. Le siccità che devastano il Corno d’Africa aggravano una situazione già disperata e trascinano la popolazione verso l’incubo della fame, una tragedia chiusa tra le mura di uno Stato che si trasforma rapidamente in una gigantesca prigione: non esiste alcun tipo di opposizione se non formale o clandestina e viene repressa qualsiasi forma di dissenso. Neanche l’Accordo di Algeri, firmato da Asmara ed Addis Abeba alla fine del 2000, mette fine alle tensioni: aumenta la guerra di propaganda tra i due Paesi e lo scambio di accuse circa la causa del conflitto e la responsabilità dell’intervento militare. Gli eritrei mettono in discussione la legittimità della Commissione di Arbitraggio Internazionale dell’Aja (CAI) che nel 2002 ridisegna i confini intorno a Badme e il regime si oppone al contingente di pace delle Nazioni Unite (UNMEE) che ha il compito di controllare l’attuazione dell’Accordo di Algeri e garantire una zona cuscinetto che si estende all’interno del territorio eritreo per una profondità di 25 chilometri. La crisi con la comunità internazionale arriva al collasso il 14 dicembre 2005, quando Afeworki dispone il divieto di sorvolo del territorio eritreo a qualsiasi aeromobile dell’Onu, chiude 18 dei 40 posti di controllo che si trovano lungo l’area demilitarizzata e sospende le operazioni di sminamento dei territori colpiti dalla guerra. Con questa mossa Asmara riesce a raggiungere due obiettivi: far fallire la missione di pace e riaffermare la possibilità di una nuova guerra imminente contro l’Etiopia, strategia avvalorata nel 2008 dalla posizione presa dal governo a favore delle Corti islamiche durante l’invasione etiope delle Somalia. Una strategia che gli permette di alimentare la sua maniacale fobia contro le ingerenze straniere ed usare il ricatto della paura su un popolazione già fortemente provata dalla fame e vessata da continue minacce: vengono inasprite le pene per i renitenti e i disertori, pene che in caso di irreperibilità dell’accusato possono colpire gli stesi parenti, le moglie e i genitori del ricercato. E a poco servono esempi come le elezioni regionali del 17 maggio 2004, una consultazione dove i candidati sono tutti legati, direttamente o indirettamente, al Partito unico di Afeworki e che quindi non posso certo rappresentare una garanzia di democrazia. Intanto le autorità militarizzano progressivamente l’Amministrazione Pubblica e prendono provvedimenti che in molti settori limitano la libertà personale, cresce l’indisponibilità di beni di prima necessità mentre aumenta la forza schierata alla frontiera con l’Etiopia. La crescita dei gruppi di opposizione non rappresentano una minaccia: il Movimento Eritreo della Jihad Islamica, che trova le sue radici in un gruppo di dissidenti che nel 1975 lasciò il Fronte di Liberazione Eritreo, è soprattutto un punto di raccolta della dissidenza politica che, eccezion fatta per qualche azione contro le forze armate eritree, ripudia l’estremismo ma che comunque viene inserito da Washington nella lista nera dei gruppi terroristici internazionali. Intanto, metà degli abitanti continua a sopravvivere grazie agli aiuti alimentari che UNICEF, WHO, la Croce Rossa Internazionale e le altre Organizzazioni umanitarie riescono a far entrare nel paese; aiuti che il regime limita perché ossessionato dalle minacce di infiltrazioni esterne. Nel 1993 l’Eritrea e il suo leader, Isaias Afewerki, fecero una scelta ben precisa: giustizia sociale come questione di importanza nazionale, non solo dal punto di vista della legge ma come offerta di sviluppo e di distribuzione della ricchezza. La fallimentare risposta data al popolo eritreo viene descritta da alcuni come una sorta di “sindrome etiope”, una condanna alla quale è impossibile sottrarsi fin quando non verrà risolto l’annoso problema del confine col l’Etiopia. Ma il tira e molla, le truppe che vengono ammassate a pochi chilometri dalla linea di demarcazione stabilita nel 2002, i fatti di sangue che si ripetono e che accrescono la diffidenza reciproca, vengono utilizzati come fumo negli occhi per nascondere la povertà di un paese afflitto da carestie cicliche e nel quale il rispetto dei diritti umani è diventato carta straccia. Nel rapporto 2007/2008 sullo Sviluppo Umano, le Nazioni Unite pongono l’Eritrea al 157mo posto su 177 Paesi, con un’aspettativa di vita che non arriva a 57 anni, un trend demografico che per il 2015 prevede di 6.2 milioni di persone (2.1 nel 1975 e 4.5 nel 2005) e una fascia di popolazione denutrita che passa dal 70% del 1992 al 75% del 2004; con i bambini con età inferiore ai 5 anni che per il 44% risultano sottopeso, un tasso di mortalità infantile che raggiunge l’8% e 1000 madri su 100 mila che perdono la vita durante il parto; con più della metà della popolazione che vive sotto la soglia di povertà nazionale e con il flagello dell’Aids che nel 2005 ha colpito il 2,4% degli eritrei con età compresa tra i 15 e i 49 anni. Una situazione insostenibile, esacerbata dalla quasi completa mancanza di scambi commerciali con i Paesi confinanti, dai lunghi periodi di siccità e dalla scarsità di risorse idriche, risultato dell’assenza d’investimenti che vengono invece convogliati verso la Difesa. Un paese in mano ad un solo uomo che dall’ 8 giugno 1993 ricopre la carica di Capo di Stato e di Primo ministro; un eroe dell’indipendenza nazionale che - insieme ai 150 membri dall’Assemblea unicamerale, di cui 75 provenienti dal Comitato Centrale del partito al potere da lui presieduto - difende la sua supremazia utilizzando la leva della paura per una guerra imminente. Un regime autoritario guidato da un uomo che l’attivista eritreo per i diritti umani, Selam Kidane, paragona alla Corea del Nord e al suo tiranno Kim Jong-il. Un paranoico, irrazionale, eccentrico e solitario leader.

ERITREA: L’ALTRA FACCIA DELL’INDIPENDENZA

di Eugenio Roscini Vitali Le condizioni globali dell’Eritrea di oggi si possono riassumere in una sola parola: tragedia. E non potrebbe essere altrimenti visti gli indicatori che concorrono a trasformare questo triste primato in un incubo, veri e propri record di povertà, fame, repressione e disperazione che fanno di questo Paese un caso quasi unico, un dramma che trova le sue origini nei sogni di libertà di un popolo tradito e nelle promesse che un leader non ha mai mantenuto. A quasi vent’anni dalla sua indipendenza, l’Eritrea non è altro che il prodotto delle decisioni e delle azioni politiche dell’uomo che ne ha disegnato i destini, di colui che ha combattuto perchè potesse diventare una nazione libera ed indipendente e che l’ha poi trascinata in una devastante guerra di confine, di chi l’ha costretta ad anni di immobilità diplomatica e l’ha portata all’isolamento totale, del suo primo ed unico presidente, di Isaias Afewerki. Anche se la comunità internazionale ne riconoscerà lo status di nazione solo dopo due anni, di fatto l’Eritrea ottiene l’indipendenza dall’Etiopia nel maggio 1991, al termine di una lotta politica e militare durata trent’anni. Quando nel 1960, al Cairo, Idris Muhammad Adam e Hamid Idris Awate danno vita al primo movimento eritreo di liberazione, sono già cinquant’anni che nel resto del continente africano si combatte contro il colonialismo. In effetti, una volta disciolta l’Africa orientale italiana, per gli eritrei il vero problema non è l’indipendenza ma l’annessione imposta da Addis Abeba, che considera la regione costiera come parte integrante dell’Impero. A stabilirlo è stata la Risoluzione ONU numero 390 del 2 dicembre 1950, con la quale Eritrea ed l’Etiopia entrano a far parte di una federazione all’interno della quale Asmara gode di competenze limitate. Un governo federale che rappresenta “un espediente transitorio in vista del ricongiungimento alla madrepatria di una terra irredenta e finalmente liberata” e che in qualche modo ripaga gli etiopi per i torti subiti durante il colonialismo. E’ sulla base di queste affermazioni che nel 1962, con un atto puramente coercitivo, il Negus Hailé Selassié annette l’Eritrea all’Impero Etiope ed è così che l'opposizione, organizzatasi nel Fronte di Liberazione Eritreo (ELF), decide di passare alla lotta armata. Una guerra che durerà trent'anni e che per trent’anni, prima contro la monarchia e poi contro la dittatura militare, terrà unite la resistenza etiope e quella eritrea in percorso comune che si concluderà con la caduta della giunta istituita nel 1974 dal Colonnello Menghistu Hailé Mariam. Da parte eritrea, a guidare la resistenza è Isaias Afewerki, universitario in ingegneria che nel 1966 entra nel Fronte di Liberazione Eritreo e nel 1973, insieme ad Osman Saleh Sabbe, da vita al Fronte Popolare di Liberazione Eritreo, di cui diventerà leader nel 1987. La scissione, principalmente dovuta a posizioni ideologiche maggiormente rivolte al socialismo, permetterà ad Afewerki di aumentare il suo peso all’interno dell’organizzazione e, con l’aiuto del Fronte di Liberazione del Tigray di Meles Zenawi, di estromettere l'ELF dalla scena politica eritrea. Cacciato Menghistu, nel 1993 l'Eritrea diventa uno Stato sovrano: a consentirlo è la nuova Etiopia di Zenawi e a volerlo è il popolo eritreo che esprime la sua volontà attraverso un referendum. Da qui alla fine di un sogno il passo è breve: successore e sintesi dei movimenti armati che hanno combattuto per la libertà e l’indipendenza è il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, partito unico presieduto da Afewerki ed espressione di un governo fortemente autoritario che a più riprese post pone lo svolgimento di elezioni politiche e di fatto non permette che la Costituzione, ratificata nel 1997, entri mai in vigore. La posta in gioco non cancella però l’ottimismo di un popolo abituato a soffrire e gli eritrei giurano così di costruire uno Stato libero, dove la coesione sociale e il lavoro devono diventare una ricchezza comune ed un argine contro ogni forma corruzione, criminalità e discriminazione, etnica e religiosa. Sogni che nell’arco di breve tempo si infrangono tra le rovine del villaggio etiope di Badme: un ciclo di crisi che a turno coinvolge il Sudan, lo Yemen e l’Etiopia e che raggiunge il suo apice nel 1998 con una guerra che in 31 mesi causa circa 70 mila vittime e quasi 100 mila profughi. Gli effetti del conflitto con l’Etiopia e il modo autoritario con il quale Afeworki governa il paese portano ben presto l’Eritrea al collasso economico e sociale; condizioni di forte arretratezza che mettono la popolazione in situazioni di forte rischio umanitario. Le siccità che devastano il Corno d’Africa aggravano una situazione già disperata e trascinano la popolazione verso l’incubo della fame, una tragedia chiusa tra le mura di uno Stato che si trasforma rapidamente in una gigantesca prigione: non esiste alcun tipo di opposizione se non formale o clandestina e viene repressa qualsiasi forma di dissenso. Neanche l’Accordo di Algeri, firmato da Asmara ed Addis Abeba alla fine del 2000, mette fine alle tensioni: aumenta la guerra di propaganda tra i due Paesi e lo scambio di accuse circa la causa del conflitto e la responsabilità dell’intervento militare. Gli eritrei mettono in discussione la legittimità della Commissione di Arbitraggio Internazionale dell’Aja (CAI) che nel 2002 ridisegna i confini intorno a Badme e il regime si oppone al contingente di pace delle Nazioni Unite (UNMEE) che ha il compito di controllare l’attuazione dell’Accordo di Algeri e garantire una zona cuscinetto che si estende all’interno del territorio eritreo per una profondità di 25 chilometri. La crisi con la comunità internazionale arriva al collasso il 14 dicembre 2005, quando Afeworki dispone il divieto di sorvolo del territorio eritreo a qualsiasi aeromobile dell’Onu, chiude 18 dei 40 posti di controllo che si trovano lungo l’area demilitarizzata e sospende le operazioni di sminamento dei territori colpiti dalla guerra. Con questa mossa Asmara riesce a raggiungere due obiettivi: far fallire la missione di pace e riaffermare la possibilità di una nuova guerra imminente contro l’Etiopia, strategia avvalorata nel 2008 dalla posizione presa dal governo a favore delle Corti islamiche durante l’invasione etiope delle Somalia. Una strategia che gli permette di alimentare la sua maniacale fobia contro le ingerenze straniere ed usare il ricatto della paura su un popolazione già fortemente provata dalla fame e vessata da continue minacce: vengono inasprite le pene per i renitenti e i disertori, pene che in caso di irreperibilità dell’accusato possono colpire gli stesi parenti, le moglie e i genitori del ricercato. E a poco servono esempi come le elezioni regionali del 17 maggio 2004, una consultazione dove i candidati sono tutti legati, direttamente o indirettamente, al Partito unico di Afeworki e che quindi non posso certo rappresentare una garanzia di democrazia. Intanto le autorità militarizzano progressivamente l’Amministrazione Pubblica e prendono provvedimenti che in molti settori limitano la libertà personale, cresce l’indisponibilità di beni di prima necessità mentre aumenta la forza schierata alla frontiera con l’Etiopia. La crescita dei gruppi di opposizione non rappresentano una minaccia: il Movimento Eritreo della Jihad Islamica, che trova le sue radici in un gruppo di dissidenti che nel 1975 lasciò il Fronte di Liberazione Eritreo, è soprattutto un punto di raccolta della dissidenza politica che, eccezion fatta per qualche azione contro le forze armate eritree, ripudia l’estremismo ma che comunque viene inserito da Washington nella lista nera dei gruppi terroristici internazionali. Intanto, metà degli abitanti continua a sopravvivere grazie agli aiuti alimentari che UNICEF, WHO, la Croce Rossa Internazionale e le altre Organizzazioni umanitarie riescono a far entrare nel paese; aiuti che il regime limita perché ossessionato dalle minacce di infiltrazioni esterne. Nel 1993 l’Eritrea e il suo leader, Isaias Afewerki, fecero una scelta ben precisa: giustizia sociale come questione di importanza nazionale, non solo dal punto di vista della legge ma come offerta di sviluppo e di distribuzione della ricchezza. La fallimentare risposta data al popolo eritreo viene descritta da alcuni come una sorta di “sindrome etiope”, una condanna alla quale è impossibile sottrarsi fin quando non verrà risolto l’annoso problema del confine col l’Etiopia. Ma il tira e molla, le truppe che vengono ammassate a pochi chilometri dalla linea di demarcazione stabilita nel 2002, i fatti di sangue che si ripetono e che accrescono la diffidenza reciproca, vengono utilizzati come fumo negli occhi per nascondere la povertà di un paese afflitto da carestie cicliche e nel quale il rispetto dei diritti umani è diventato carta straccia. Nel rapporto 2007/2008 sullo Sviluppo Umano, le Nazioni Unite pongono l’Eritrea al 157mo posto su 177 Paesi, con un’aspettativa di vita che non arriva a 57 anni, un trend demografico che per il 2015 prevede di 6.2 milioni di persone (2.1 nel 1975 e 4.5 nel 2005) e una fascia di popolazione denutrita che passa dal 70% del 1992 al 75% del 2004; con i bambini con età inferiore ai 5 anni che per il 44% risultano sottopeso, un tasso di mortalità infantile che raggiunge l’8% e 1000 madri su 100 mila che perdono la vita durante il parto; con più della metà della popolazione che vive sotto la soglia di povertà nazionale e con il flagello dell’Aids che nel 2005 ha colpito il 2,4% degli eritrei con età compresa tra i 15 e i 49 anni. Una situazione insostenibile, esacerbata dalla quasi completa mancanza di scambi commerciali con i Paesi confinanti, dai lunghi periodi di siccità e dalla scarsità di risorse idriche, risultato dell’assenza d’investimenti che vengono invece convogliati verso la Difesa. Un paese in mano ad un solo uomo che dall’ 8 giugno 1993 ricopre la carica di Capo di Stato e di Primo ministro; un eroe dell’indipendenza nazionale che - insieme ai 150 membri dall’Assemblea unicamerale, di cui 75 provenienti dal Comitato Centrale del partito al potere da lui presieduto - difende la sua supremazia utilizzando la leva della paura per una guerra imminente. Un regime autoritario guidato da un uomo che l’attivista eritreo per i diritti umani, Selam Kidane, paragona alla Corea del Nord e al suo tiranno Kim Jong-il. Un paranoico, irrazionale, eccentrico e solitario leader.

C'erano 74 eritrei tra gli 89 respinti il primo luglio

Quindi almeno 74 degli 89 respinti avrebbero avuto il diritto a chiedere asilo, e ora hanno diritto a presentare ricorso contro il respingimento. Due di loro sono stati feriti dagli ufficiali italiani perché protestavano contro la deportazione. Il 5 luglio respinti altri 40 migranti trovati su un barcone alla deriva [da Fortress Europe] TRIPOLI, 6 luglio 2009 – Erano eritrei i passeggeri dell’imbarcazione respinta al largo di Lampedusa lo scorso primo luglio. Rifugiati eritrei. Che adesso rischiano il rimpatrio. O la detenzione a tempo indeterminato nelle carceri libiche, dove già sono stati tratti in arresto. I 65 uomini si trovano nel campo di detenzione di Zuwarah. Le 9 donne nel campo femminile di Zawiyah, a ovest di Tripoli. Abbiamo ricevuto la lista completa dei loro nomi dalla comunità eritrea di Tripoli. Non possiamo pubblicarla per evidenti motivi di sicurezza. Si tratta nella maggior parte dei casi di disertori dell’esercito. Sono una piccola parte degli almeno 130 mila eritrei rifugiati in Sudan. Da anni in Eritrea ragazzi e ragazze, raggiunta la maggiore età, sono obbligati alla coscrizione militare a tempo indeterminato e i disertori sono puniti col carcere. E la stessa fine fanno giornalisti, obiettori di coscienza, uomini politici e leader religiosi in un paese che dopo l’indipendenza, dal 2001 è stretto in una morsa sempre più autoritaria. L’Italia conosce la situazione eritrea. La conosce talmente bene che lo scorso anno ha concesso un permesso di soggiorno alla maggior parte dei 2.739 eritrei sbarcati sulle coste siciliane. In nome degli obblighi internazionali verso i rifugiati politici. Ma i tempi adesso sono cambiati. I respingimenti in mare sono la regola. Poco importa se si rimandano in Libia persone che rischiano la vita in caso di rimpatrio. Dopotutto Maroni è stato chiaro: «L’Unhcr può fare in Libia l’accertamento delle persone che chiedono asilo». Il ragionamento non fa una piega. Perché un rifugiato deve chiedere asilo in Europa quando può comodamente farlo in Libia? Chissà se la pensano allo stesso modo i 75 eritrei respinti e arrestati. L’Alto commissariato dei rifugiati dell’Onu è già stato informato del caso. E se tutto va bene il rimpatrio sarà annullato e i profughi saranno trasferiti a Misratah. Un campo di detenzione 200 km a est di Tripoli, dove dal 2006 altri 600 eritrei aspettano una soluzione. La soluzione – che è quella proposta da Maroni – si chiama resettlement. Consiste nel trasferimento dei rifugiati politici in un paese terzo disposto ad accoglierli volontariamente. L’Italia lo fece nel 2007 con 60 donne eritree che da oltre un anno erano detenute a Misratah. In quello stesso campo ci sono rifugiati detenuti da tre anni. Piuttosto che tornare nelle galere eritree o nelle trincee al confine con l’Etiopia, preferiscono rimanere lì. A buttare gli anni migliori della propria vita. In attesa che l’Italia e l’Europa aprano il rubinetto col contagocce. È uno degli effetti più nefasti delle politiche dei respingimenti. Il diritto è diventato un bastone tra le ruote. Quello che non tutti sanno infatti, è che ognuno dei 74 eritrei respinti avrebbe diritto di presentare ricorso alla Corte europea – e con tutta probabilità di vincerlo – per violazione del diritto d’asilo, del divieto di torture e del diritto a un ricorso effettivo. Esattamente come hanno fatto il mese scorso 24 rifugiati somali ed eritrei respinti a Tripoli e assistiti dall’avvocato Giulio Lana del foro di Roma. Avrebbero diritto, ma non hanno accesso a un avvocato. Ormai è tutto più sbrigativo. Lo hanno imparato a loro spese due degli eritrei deportati. Ancora una volta non possiamo fare i loro nomi. Quando si sono accorti che il pattugliatore Orione della Marina italiana stava facendo rotta verso sud, hanno vivamente protestato a bordo. Secondo il racconto dei nostri testimoni ne sarebbe nata una colluttazione con alcuni ufficiali e il ferimento dei due profughi. Niente paura. Gli italiani dormano sogni tranquilli. «Abbiamo fermato l’invasione», recitano i manifesti elettorali della Lega. Intanto domenica 5 luglio, altri 40 emigranti sono stati respinti in Libia dalle pattuglie italiane. Erano su un gommone alla deriva, 70 miglia a sud di Lampedusa. Sette dei passeggeri – tra cui cinque donne – erano in gravi condizioni di salute e sono stati trasportati a Catania, dove sono attualmente ricoverati.