venerdì 21 agosto 2009

Gli eritrei in fuga dall'inferno

La dittatura di Afeworki è la più rigida di tutta l'Africa e finanzia i gruppi islamici in Somalia Gli ottanta eritrei – di cui solo cinque arrivati salvi in Italia – sono scappati dall’inferno. Un inferno fatto di quotidiane violazioni dei diritti umani, dove la personalità dei cittadini viene annientata e distrutta nel nome di un utopistico e irraggiungibile bene supremo. Assieme alla Guinea Equatoriale, l’Eritrea è oggi governato dalla dittatura più rigida e repressiva di tutta l’Africa. Il presidente Isayas Afeworki ha militarizzato il Paese, comanda con il pugno di ferro e sembra ossessionato dalla guerra. Ha attaccato quasi tutti i Paesi vicini: l’Etiopia, Gibuti e lo Yemen. Secondo le Nazioni Unite protegge, finanzia e addestra i gruppi ribelli islamici in Somalia. L’uomo che negli anni Ottanta veniva applaudito come un combattente per la libertà, una volta al potere si è rivelato uno spietato tiranno. Il suo Paese è ridotto alla fame. I negozi sono vuoti; il carburante è razionato. Ecco come Amnesty International dipinge l’ex colonia italiana sul mar Rosso: «Il governo ha vietato i giornali indipendenti, i partiti di opposizione, le organizzazioni religiose non registrate e di fatto qualsiasi attività della società civile. All'incirca 1.200 richiedenti asilo eritrei rimpatriati forzatamente dall'Egitto e da altri Paesi sono stati detenuti al loro arrivo in Eritrea. Analogamente, migliaia tra prigionieri di coscienza e prigionieri politici sono rimasti in detenzione dopo anni trascorsi in carcere. Le condizioni delle prigioni sono risultate pessime. Coloro che venivano percepiti come dissidenti, disertori e quanti avevano eluso la leva militare obbligatoria, o altri che avevano criticato il governo sono stati, assieme alle loro famiglie, sottoposti a punizioni e vessazioni. Il governo ha reagito in modo perentorio contro qualsiasi critica in materia di diritti umani». I cittadini eritrei nella loro stessa patria sono sottoposti a restrizione nei movimenti. Spie e polizia sono ovunque. Come in Corea del Nord il partito controlla ogni cosa: la attività economiche e la vita quotidiana, fatta di continui sospetti anche all’interno di una stessa famiglia. I giovani eritrei fuggono perché la loro unica prospettiva è finire a Sawa, un enorme e durissimo centro d’addestramento reclute dove chi entra è sottoposto a un vigoroso lavaggio del cervello. I commissari politici insegnano a sospettare «dei nemici della rivoluzione e del popolo». La leva militare non ha durata fissa. Si può restare sotto le armi anche anni. In questi giorni i siti dei dissidenti eritrei hanno pubblicato la notizia di un tentativo di assassinare Isayas, avvenuto il 13 agosto, sventato dalle sue guardie del corpo che hanno ammazzato l’attentatore sul posto. Il 18 settembre 2001 sono scomparsi in un gulag eritreo tredici ministri – tra cui l'ex capo dell’intelligence ed eroe della rivoluzione eritrea, Petros Solomon - che avevano firmato un manifesto con il quale chiedevano democrazia e libertà. Finiti chissà dove e forse morti. Giornalisti stranieri che hanno «osato» criticare il regime, sono stati ripagati con una condanna a morte in contumacia. Isayas Afeworki viene spesso in Italia, anche in visita privata. Nessuno lo tratta da tiranno, piuttosto da amico. Non ricambia la cortesia e taglieggia in continuazione i nostri connazionali che vivono in Eritrea o hanno ancora interessi laggiù. I rifugiati che abitano da noi hanno paura: per loro o per i parenti restati in patria. Ci sono stati casi di palesi aggressioni. L’ultima in ottobre scorso quando al festival eritreo a Roma, militanti regolarmente autorizzati che distribuivano volantini di Amnesty International sono stati presi a pugni calci e bottigliate. Massimo A. Alberizzi malberizzi@corriere.it

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