mercoledì 28 ottobre 2009

ETIOPIA La gente fugge per sopravvivere: di Marina Corradi

27/10/2009 - In un'intervista ad Avvenire, l'arcivescovo Souraphiel richiama l'attenzione sulle condizioni dei cristiani nella sua terra. E rilancia le sue speranze, al termine del Sinodo: «L’Africa ha bisogno di uomini, ma per farli occorre educare» Dal Sinodo della Chiesa africana, in una conferenza stampa di pochi giorni fa, una voce si è levata, pacata, dolente: «Anche le vite degli africani hanno un valore, che spesso non si vede sui media occidentali, quando raccontano le tragedie del mare». Lo ha detto il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel, arcivescovo di Addis Abeba e presidente della Conferenza Episcopale etiopica, che comprende anche la Chiesa eritrea. Al Collegio Etiopico, in Vaticano, il cardinale ci viene incontro sulla soglia, con la semplicità cordiale della gente africana. Cosa voleva dire, eminenza - chiediamo - con quel suo richiamo? «Vede - risponde Souraphiel - in Etiopia come ovunque si vedono ormai le tv di tutto il mondo. E spesso ho visto le immagini di sbarchi, o di naufragi nel Mediterraneo, e mi è sembrato quasi di avvertire che la vita non ha lo stesso valore per tutti. So di nostra gente che ha sofferto molto per traversare il deserto, o che fugge, come gli Eritrei, da una dittatura e avrebbe diritto all’asilo; e il saperli respinti in mare dall’Italia mi sembra una cosa molto dura». «Dall’Etiopia - prosegue Souraphiel - si parte per fame: il 50% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Dall’Eritrea, si parte per sfuggire alle persecuzioni. L’Etiopia è in grande maggioranza cristiana ortodossa (cattolica invece l’Eritrea), e però fame e guerra spingono a emigrare anche in Medio Oriente. Dove ai migranti vengono imposti gli usi islamici, le donne sono costrette a indossare il velo, e spesso per la tranquillità del vivere ci si converte all’Islam. È la prima volta, nella nostra storia, che la povertà intacca le radici cristiane della popolazione». Cosa si sa in Etiopia dei viaggi nel Sahara che i migranti intraprendono per raggiungere il Mediterraneo? Si sa che questi viaggi sono gestiti da trafficanti che esigono continui pedaggi, che molte donne finiscono col prostituirsi per poter pagare, che qualcuno nel deserto lascia la vita. Si sa che il Sahara è una trappola: ma partono comunque, spinti dalla speranza di una nuova vita. È spesso gente che ha studiato, che potrebbe inserirsi in Occidente. Mi sgomenta pensare a che destino vanno incontro. A settembre mi trovavo a Verona, e ho celebrato il funerale di una nostra immigrata finita nella prostituzione e uccisa. Ha lasciato un bambino. Ma se penso che quella povera donna cercava solo un destino migliore, e a come è morta, credo che proprio questo non sia giusto. Su cosa sono fondate le speranze di un avvenire migliore in Etiopia? Qualcosa si sta facendo: infrastrutture, grandi dighe sui fiumi per creare bacini di irrigazione. L’Etiopia non è sempre stata così povera: quando io ero un bambino, si mangiava, e addirittura si esportava parte del raccolto in India. Siccità, guerra, instabilità politica ci hanno ridotto come oggi. Anni fa lessi che a un G8 era stato preso l’impegno di destinare ai paesi africani lo 0,7% del Pil dei Paesi della Ue. Però quei soldi siano mai arrivati. Di cosa è ricca, eminenza, la sua terra? Sorride Souraphiel: «Di vocazioni. Siamo ricchi di vocazioni di preti e suore. Ma l’Africa non è solo povera: è ricca di grandi risorse naturali, e del suo grande popolo. L’Africa è un paradosso. Ma io sono pieno di speranza, in questo Sinodo che annuncia riconciliazione e pace. Intanto, a Addis Abeba stiamo aprendo con l’aiuto della Cei una Università Cattolica che formi la nuova classe dirigente dell’Etiopia. Perché l’Africa ha bisogno di uomini, e per fare gli uomini occorre educare». (da Avvenire, 27 ottobre 2009)

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