giovedì 11 marzo 2010

Libia - La denuncia di Radio Erena. I servizi eritrei implicati nei rimpatri

di Gabriele Del Grande Dieci febbraio 2010. Gaeta. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni stringe la mano all’ambasciatore libico in Italia Hafed Gaddur. L’Italia ha mantenuto l’impegno sottoscritto dal governo Prodi nel 2007. E consegna alla Libia altre tre motovedette per i pattugliamenti anti emigrazione al largo di Tripoli, dopo le tre consegnate nel maggio 2009. La ricetta dei respingimenti, voluta dal governo Prodi e messa in atto dal governo Berlusconi, ha dato i frutti sperati. Gli sbarchi in Sicilia si sono azzerati negli ultimi mesi. Nel 2009 sono arrivate via mare poco più di 9mila persone a fronte di oltre 36mila giunte l’anno precedente. Dall’inizio dei respingimenti, nel mese di maggio, il numero degli arrivi è calato addirittura del novanta percento. "Abbiamo fermato l’invasione", recitano tronfi d’orgoglio i manifesti elettorali della Lega. Nessuno però ha ancora detto agli italiani che fine hanno fatto i respinti. A dieci mesi di distanza dai primi refoulement, abbiamo ricostruito il loro destino, grazie a una rodata rete di informatori in Libia. Molti dei respinti sono stati rimpatriati nei loro paesi. Ma non i rifugiati politici, somali e eritrei, che sono ancora in carcere. I primi si trovano in due campi, a Tripoli e a Gatrun, mille chilometri più a sud, in pieno deserto. Gli eritrei invece sono divisi tra Misratah, Zlitan, Garaboulli e, le donne, Zawiyah. E mentre in Italia si brinda al giro di vite sugli sbarchi, i rifugiati in Libia rischiano l’espulsione. Rischiano sì, perché a differenza dei contadini del Burkina Faso o dei ragazzi delle periferie di Casablanca, per un eritreo o per un somalo il rimpatrio significa arresti e persecuzioni. E in alcuni casi, la vita. La Somalia è in guerra civile dal 1991. E il regime eritreo dal 2001 stringe in una morsa sempre più serrata l’opposizione e l’esercito. La repressione è tale, che recentemente i servizi segreti eritrei sono arrivati addirittura in Libia alla ricerca degli oppositori. È successo nel gennaio 2010. L’idea iniziale era di organizzare un’espulsione di massa, come fece l’Egitto nel 2008 quando rimpatriò in un mese ottocento eritrei, in gran parte disertori. Così, tra gennaio e febbraio, centinaia di eritrei detenuti in Libia sono stati schedati. Alle iniziali proteste di chi rifiutava di fornire le proprie generalità all’ambasciata, la polizia libica ha risposto con la violenza. Nel campo di Surman gli scontri sono stati particolarmente cruenti. Ma alla fine la diaspora eritrea è riuscita a esercitare una certa pressione sulle organizzazioni internazionali e sulla stampa. E il progetto di rimpatrio si è ridimensionato, assumendo però un carattere ancora più preoccupante. Secondo Radio Erena, una radio indipendente dell’opposizione eritrea basata a Parigi, tra le centinaia di eritrei detenuti in Libia, il regime ne avrebbe selezionati dodici e li avrebbe espulsi. I fatti risalirebbero al 2 febbraio 2010. Il criterio con cui i dodici sarebbero stati scelti è il ruolo politico che avevano in patria prima della fuga. Tutti infatti erano assunti presso diversi uffici ministeriali e due di loro erano membri dell’aviazione militare eritrea. Radio Erena ha diffuso una lista dei nomi:Nove dei dodici espulsi, sarebbero ancora detenuti in modo arbitrario nel carcere eritreo di Embatkala. Si tratta di: Zigta Tewelde, Asmelash Kidane, Zeraburuk Tsehaye, Zewde Teferi, Yohannes Tekle , Ghebrekidan Tesema, Tilinte Estifanos Halefom, Nebyat Tesfay e Tilinte Tesfagabre Mengstu. Inoltre, Habte Semere e Yonas Ghebremichael, che prima di fuggire dall’Eritrea lavoravano nell’ufficio del presidente Afewerki, sarebbero in queste ore detenuti nella prigione di Ghedem, vicino Massawa. In Eritrea li attendono anni di carcere duro e torture. Ma per gli eritrei rimasti in Libia la situazione non è migliore. Nel centro di detenzione di Garabulli sono in centosettanta, rinchiusi insieme a ventiquattro somali, in celle grandi quanto un monolocale, trenta metri quadrati, dove vengono stipate fino a quaranta o cinquanta persone buttate a dormire per terra. Qui gli eritrei sono arrivati il 16 settembre, dal carcere di Ganfuda, a Bengasi, dove nel mese di agosto una rivolta dei detenuti era stata sedata nel sangue dalla polizia libica, con l’uccisione di almeno sei prigionieri somali. Anche qui il 28 dicembre 2009 sono arrivati i formulari dell’ambasciata eritrea per l’identificazione e il rimpatrio. Ma nessuno li ha voluti firmare per paura di essere perseguitato in patria. Sono quasi tutti disertori dell’esercito e in Eritrea rischiano la corte marziale e i campi di lavoro forzato. A fargli cambiare idea sono state le torture della polizia libica. L’11 gennaio li hanno fatti uscire uno a uno, nel corridoio del carcere, riempiendoli di manganellate. Un uomo è stato ammanettato e appeso al muro per i polsi, perché fosse da esempio agli altri. Alla fine hanno riempito i formulari in centoventi, altri cinquanta hanno continuato a rifiutare nonostante i pestaggi. Oggi hanno tutti la stessa paura. Chi ha firmato teme di essere rimpatriato. Chi non lo ha fatto ha paura di essere trasferito in un’altra prigione e di passare anni nelle galere libiche. Gli anni migliori della vita. Magari con una famiglia qui in Italia che li aspetta e che da mesi non ha più loro notizie. Ma non si preoccupino gli italiani. Maroni l’ha detto e ripetuto: "La Libia fa parte dell’Onu e in Libia è presente l’Alto commissariato per i rifugiati della nazione Unite". Tratto dal sito: Fortresseurope.blogspot.com [ mercoledì 10 marzo 2010 ]

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