domenica 18 luglio 2010

«Noi, eritrei dimenticati dall’Italia»

Parla Mario Ruffin, “profugo” di Asmara, che denuncia: «L’Italia li ha abbandonati» Di MASSIMILIANO BORDIGNONMario Ruffin ha 81 anni vissuti pienamente, come si addice a uno spirito libero. Medico, abita a Treviso, ma la sua infanzia l’ha trascorsa ad Asmara, capitale e città più popolosa dell’Eritrea con il suo mezzo milione abbondante di abitanti. Un’esistenza, quella di Ruffin, divisa a metà fra lo stato africano e l’Italia, ma una consapevolezza, superiore a molti altri, di quale sia la partita della tragedia che tuttora il popolo eritreo vive sulla propria pelle. “Io, come molti italiani che ebbero la fortuna di conoscere lo sfortunato e spesso eroico popolo eritreo, sono molto emozionato per le orribili notizie sulla sorte cui sono destinati molti giovani profughi in Libia. Lo Stato dell’Eritrea è una creatura dell’Italia postrisorgimentale. Non ci può essere estraneo”, scrive al Corriere Canadese, aggiungendo: “Moltissimi di loro vengono respinti dall’Italia malgrado abbiano ottime ragioni per chiedere asilo politico”. E il Corriere ha raccolto l’appello del signor Ruffin, che ha voluto raccontare direttamente la propria esperienza africana e spiegare cosa significhe essere cresciuto in Eritrea e quale sia il legame profondo che ancora unisce tanti italiani a quelle terre. «Intanto mando un grosso saluto a tutti gli italiani e agli eritrei del Canada. Ho 81 anni, ma ne dimostro 60 e posso dire di essere un “afrikaner”. Io e tutti quelli come me ci consideriamo italiani d’Africa. I miei fratelli sono nati e cresciuti lì, mio padre ci è andato nel 1936 ed è andato via nel 1975 quando è subentrato al potere Menghistu». Perché ci ha scritto? «Mi sono mosso non appena è apparsa in Italia la notizia di questi 250 cittadini eritrei imbarcati e poi rimandati in Libia. Questi sono fuggiaschi e arrivano da una condizione dittatoriale, scappano dall’Eritrea a causa di una tensione persistente al confine con l’Etiopia. Questo obbliga la maggior parte dei giovani a venire reclutati e schierati al confine, lasciando le donne a casa. La gioventù non resta più in città e come conseguenza non si lavora più. Ma soprattutto, quando uno può, scappa. Quando vennero qui dei ciclisti eritrei io mi offrii di fare loro da medico sportivo e li seguii durante i loro allenamenti, poi all’improvvisamente due non si fecero più trovare. Qualcuno parlò di rapimento, in realtà avevamo capito che erano fuggiti perché non volevano andare sotto le armi. Pur di lasciare l’Africa attraversano il deserto, si imbarcano su navi di sfruttatori e poi succede come nell’episodio del barcone di Lampedusa, in cui oltre 70 vennero buttati a morire in mare, compresi donne e bambini. Resta il fatto che l’Italia fa di tutto per respingerli, ma ci si dimentica come la maggior parte degli immigrati arrivi in Italia dalle frontiere del nord, inoltre è statisticamente provato che etiopi ed eritrei non commettono reati, quasi non se ne sente parlare. È un popolo saggio ed eroico, che durante la guerra con l’Etiopia combattè con grandissimo valore. I guerrieri eritrei erano considerati i nostri “gurkha“ (i famosi guerrieri nepalesi al soldo dell’esercito britannico, ndr), ma purtroppo combattevano per una causa persa». Che rapporto c’era in Eritrea fra la popolazione locale e quella italiana? «In Eritrea c’era un vero e proprio apartheid da parte degli italiani. Non tanto nel XIX secolo, ma con l’avvento del fascismo io personalmente ho assistito a scene incredibili, che cancellano l’immagine dell’italiano bonaccione. Sui bus e sui tram non potevano sedersi nei posti riservati agli italiani, e c’era addirittura una seprazione con una vetrata, a scuola potevano arrivare solo alla quarta elementare per non fare concorrenza agli italiani, poi erano trattati malissimo. Bastava poco perché venissero coperti d’insulti. I miei erano antifascisti, ma io da bambino ero razzista perché lo erano tutti, e anzi, a fare il contrario si rischiava di venire denunciati, quindi anche chi non approvava quello stato di cose preferiva stare zitto. Gli eritrei erano sottopagati, vivevano in case fatiscenti, vere e proprie baracche fuori dalla città e non potevano nemmeno “mischiarsi” con gli italiani. In precedenza invece non solo questo era possibile, ma era un uso comune, tanto che diversi ufficiali del regno savoiardo venivano ritratti con la cosiddetta “madama”, ovvero una donna eritrea che veniva trattata come una moglie. Queste unioni hanno portato a moltissime nascite, che conferivano ad alcune persone di colore anche titoli nobiliari, come per un conte famoso all’epoca perché figlio di un italiano “sangue blu” e della figlia di un “ras”, che divenne facoltoso proprietario terriero e acquisì anche il titolo del genitore. Certo c’erano anche italiani democratici e liberali, ma questi erano per lo più figli di una ideologia socialista o comunque antifasista. Chi comandava assumeva invece dei toni vigliacchi e prepotenti con un popolo gentile. Anche gli italiani soffrono del famoso “mal d’Africa”? «Certamente, essere “italiano d’Africa” significa avere appunto il “mal d’Africa”, ovvero vuol dire avere una nostalgia incredibile per questo Paese e per questo popolo. Io tornai in Italia nel 1942, ma poi rientrai ad Asmara per studiare all’Università. È una popolazione che ti affascina, che pratica la religione cristiano copta. Ed è tanto più affascinante perché il patriarcato della chiesa copta d’Egitto ha tuttora dei costumi ereditati direttamente dagli antichi egizi. È una cultura quasi “fossile” e interessantissima, un popolo semita, completamente diverso dal resto dell’Africa». Lei si definisce “profugo dall’Eritrea”. Gli italiani d’Africa si sono sentiti abbandonati dal governo italiano? «Quando prima gli inglesi e poi gli americani occuparono l’Eritrea provocarono un disatro. Gli italiani, che fino a quel momento avevano spadroneggiato, furono costretti a inventarsi un mestiere e, incredibilmente, fra noi e gli eritrei si creò un clima veramente speciale. Furono anni incredibili, e anche più tardi venivo spesso fermato da gente per strada che mi chiamava, mi sorrideva e mi diceva: “Tu sei un gradito ospite” e mi offriva un caffè. Gli eritrei vogliono bene agli italiani d’Africa. Ma quando Menghistu, da buon comunista, si rivolse all’Unione Sovietica, le aziende italiane vennero sequestrate e man mano gli italiani vennero messi nelle condizioni di andare via, tanto che ormai, di quelli della vecchia generazione, non ne saranno rimasti poco più di una cinquantina, anche se poi ne sono arrivati degli altri a causa delle diverse scuole e ospedali italiani presenti». Secondo lei gli eritrei si sentono abbastanza italiani da poterli considerare come la 21ª regione italiana? «Sì. Loro lo hanno sicuramente pensato, ma nessuno li ha ascoltati, sono stati abbandonati, dimenticati, non possono nemmeno chiedere la nazionalità italiana. Odiano Giulio Andreotti, che accusano di non aver mosso un dito per “salvarli” dall’America. Nel 1978 Indro Montanelli, che quei posti li conosceva bene, già accusava che non se ne parlasse più. Io sono tornato nel 1998 e ho visto un’Asmara splendida. È considerata patrimonio dell’Unesco, è l’unica città “europea” in Africa. Ci sono tante tracce della prsenza italiana anche nei nomi dei locali, dal Bar Vittoria alla casa del Formaggio, dal Cinema Impero ai vari bar, ferrmenti e barbieri che si trovano per strada. Gli italiani non ci sono più, ma tanto di noi è rimasto lì».

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