mercoledì 23 febbraio 2011

Libia: qui il pane non c'entra

Le motivazioni dell'improvvisa rivolta sono altre.
di Antonietta Demurtas

Sono oltre mille i morti a Tripoli durante i bombardamenti sulla folla di manifestanti che sono scesi in piazza per protestare contro il regime di Muammar Gheddafi. Una rivolta che si è subito estesa a tutta la Libia: oltre a Bengasi, una delle città sotto assedio, i ribelli hanno ora il controllo di Sirte e Torbruk, Misrata, Khoms, Tarhounah, Zenten, Al-Zawiya e Zouara. Ma è nella capitale che il regime continua a mantenere il potere e attaccare i manifestanti.

De Pretis: «Nessuno aveva il sentore che potesse succedere questo»


Una situazione degenerata in pochi giorni, che ha lasciato tutti sorpresi. «Nessuno di noi aveva il sentore che potesse succedere tutto questo», spiega a Lettera43.it Sandro de Pretis, sacerdote triestino che da 30 anni vive in Africa e da un anno si è trasferito a Tripoli per aiutare il vicario apostolico monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, che gli ha affidato la comunità eritrea e vietnamita. «La situazione in Libia era diversa da quella della Tunisia e dell'Egitto, almeno economicamente la popolazione qui vive meglio. È stata una rivoluzione improvvisa, ma provo umiliazione per non essere riuscito a capire subito ciò che si nascondeva sotto». PREOCCUPAZIONE PER GLI ERITREI. De Pretis è tornato per 10 giorni in Italia e la mattina del 22 febbraio doveva ripartire in Libia, «ma è tutto bloccato, hanno chiuso lo spazio aereo», commenta al telefono dall'aeroporto di Malpensa. La sua grande preoccupazione è per la comunità eritrea: «Da due anni il governo libico ha chiuso l'ufficio dell'Alto commissariato dell'Onu, l'unico che poteva riconoscere lo status di rifugiato politico a chi arrivava in Libia, e così migliaia di eritrei che sfuggono dal loro Paese in guerra, vivono come clandestini. Ora se non riusciranno a salire su qualche nave e attraversare il Mediterraneo, potrebbero essere rimandati indietro a morire», spiega, augurandosi di riuscire presto a ritornare in Libia. MARTINELLI NON VA VIA. A non volersene andare da Tripoli è il vicario Martinelli, che in questi giorni ha anche ricevuto dall'ambasciata italiana un invito a partire. Ma ha replicato: «Non lascerò mai la Libia finché avrò respiro. Questa è la mia Chiesa. Me ne andrò solo se mi cacciano». Dopo il discorso fatto da Gheddafi il 22 febbraio pomeriggio, che ha ascoltato insieme agli altri religiosi, monsignor Martinelli non vuole però fare alcun commento: «Stiamo bene, richiami domani», risponde un suo assistente.

A Tripoli anche l'aeroporto militare è bloccato

A Tripoli anche l'aeroporto militare è bloccato. Lo confermano i dipendenti dell'Eni che lavorano nel campo della base Wafa, a 500 chilometri a sud di Tripoli. Con una aereo-navetta sono collegati direttamente all'aeroporto militare della capitale, «ma ora è tutto bloccato e iniziano ad avere problemi di rifornimento di viveri», spiega Fabio Villa, tecnico di gestione materiali del campo Eni, rientrato in Italia il 9 febbraio per un periodo di riposo. Ora da casa sua, a Piacenza, parla con i colleghi rimasti in Libia: «Stanno bene», dice, «il problema è che stanno finendo le provviste e se l'aeroporto resta bloccato a lungo avranno anche loro delle difficoltà». In Libia la comunità italiana è numerosa: sono almeno 1.500 i connazionali che vivono stabilmente nel Paese, circa 500 lavorano per grandi imprese italiane. IN RIVOLTA, MA NON PER IL PANE. Villa racconta come gli stessi colleghi locali siano rimasti stupiti per la rivolta, che non collegano a motivazioni di indigenza economica: «I libici lavorano per lo più nel settore energetico, nel commercio e nel governo e non hanno grandi problemi economici. I dipendenti dell'industria petrolifera, poi, due anni fa si sono visti raddoppiare lo stipendio», dice. Se la rivoluzione non è collegata alla crisi economica, resta sicuramente il problema della libertà, che il regime soffoca da decenni. In quest'ottica non è da escludere l'ipotesi che ad alimentare la rivolta popolare siano stati i familiari delle vittime della ribellione che nel giugno del 1996 Gheddafi soppresse con violenza.

La miccia mai spenta della Cirenaica


Nel giugno del 1995, infatti nel capoluogo della Cirenaica, sullo sfondo di una grave crisi economica, scoppiarono violenti scontri tra polizia e militanti islamici. Nel settembre dello stesso anno, al culmine di crescenti tensioni, fondamentalisti e forze di sicurezza si scontrarono per due giorni, con un bilancio finale di morti e feriti mai reso noto dal regime. Allora Gheddafi addebitò tutto, come sta facendo in questi giorni, a «integralisti al soldo di Stati Uniti e sionisti» e accusò l’Egitto e il Sudan di essere complici. Ma nel marzo del 1996, sempre nella città sul golfo della Sirte, esplose una vera e propria rivolta islamica contro il rais, che per soffocare la sommossa usò elicotteri, navi da guerra e truppe di terra. A distanza di 15 anni è ancora dalla Cirenaica che la rivolta sembra mettere in difficoltà il Colonello. Nel discorso fatto a braccio il 22 febbraio pomeriggio, Gheddafi invita di nuovo i cittadini di Bengasi a collaborare per arrestare e ammazzare i rivoltosi. Intanto nella città le comunicazioni sono difficili, il 22 febbraio era atteso un C-130 dell'aeronautica militare italiana per rimpatriare i primi 100 italiani dalla città libica, ma la pista dell'aeroporto è stata distrutta dai bombardamenti e gli aerei non possono decollare né atterrare. LE SUORE DELL'OSPEDALE DI BENGASI. Suor Elisabetta, la responsabile della comunità dell’Ospedale Jamahiriya di Bengasi composta da sei religiose: tre italiane e tre africane, sta lavorando senza sosta per assistere 96 pazienti: «Il personale non riesce a venire al lavoro e così cerchiamo di coprire noi più che possiamo», racconta a Lettera43.it in una conversazione telefonica a intermittenza, «non abbiamo notizie se non dalla televisione, abbiamo allestito all'esterno dell'ospedale una struttura per assistere chi ha bisogno», spiega la suora dell'ordine 'Suore di carità dell'Immacolata concezione di Ivrea', che vive a Bengasi da ormai 30 anni e che non ha nessuna intenzione di tornare in Italia: «Non lasceremo sola questa gente in un momento così difficile. Siamo qui per servire il popolo libico».
Martedì, 22 Febbraio 2011

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