giovedì 3 febbraio 2011

Testimonianza!

Aziza Nella comunità di rifugiati a Tel Aviv c’è una “parola d’ordine”, una sorta di password, che da qualche mese circola di bocca in bocca. È un nome che trovi su tutti i cellulari: Aziza.
Alicia Vacas
01.02.2011:

Azezet Habtezghi, conosciuta da tutti come Aziza, è una missionaria comboniana di nazionalità eritrea. Per la sua competenza in ambito infermieristico e la conoscenza delle lingue locali – eritree, etiopiche e sudanesi –, i Medici per i diritti umani (Medu) l’hanno chiamata a far parte di una commissione che si occupa di un progetto di ricerca sulla Tratta di esseri umani nel Sinai. L’iniziativa ha come base strategica la Clinica Aperta dei Medu a Tel Aviv-Jaffa, punto di riferimento per immigrati e lavoratori di ogni nazionalità.

La Clinica Aperta è una sorta di osservatorio privilegiato dove si è preso atto con crescente preoccupazione del moltiplicarsi dei portatori di terribili cicatrici attribuibili a torture subìte durante la traversata del Sinai; delle storie di amici e parenti che non ce l’hanno fatta, i cui corpi sono rimasti abbandonati nel deserto; di donne incinte che chiedono di abortire, per aver concepito durante gli stupri da parte dei trafficanti; di pazienti ancora sotto shock; di domande la cui unica risposta è un silenzio assordante... Il sospetto di una nuova emergenza umanitaria ha spinto Medu a intraprendere un progetto di investigazione, attraverso un questionario e un’intervista a tutti i nuovi arrivati alla Clinica provenienti dal Sinai.
È ascoltando le loro storie che suor Azezet ha imparato a riconoscere i paesaggi e i segreti che il Sinai nasconde; ha “visto” più volte i campi di tortura; “vissuto” il passaggio di mano in mano, da banda a banda; conosciuto la spirale di brutalità e di soprusi cui vengono sottoposte le vittime che vedono aumentare a ogni tappa la somma da pagare per la libertà... In Aziza ognuno trova ascolto, empatia e un sorriso franco e ampio, che si appanna solo di fronte a racconti che fanno rabbrividire perfino la sua sperimentata umanità. La sua affabilità e competenza le hanno fatto guadagnare un posto di rispettosa credibilità e stima sia tra lo staff che tra la gente. E, alla fine della giornata, quando suor Azezet torna alla sua comunità comboniana di Betania, il cuore è pieno di nomi, di volti, di storie che a volte preferirebbe non aver mai ascoltato... volti e storie che popolano la sua vita, la sua preghiera, diventando un grido a nome di coloro che a lei affidano gli stralci più dolorosi della loro vita. Nelle ultime settimane, è facile incontrare Aziza inseguita da giornalisti e fotografi. La campagna dei Medu la vede pienamente coinvolta nel riportare ciò “che ha visto, udito e toccato”, e ora la stampa vuole finalmente sapere.
Mi sento fortemente scossa dall’appello di questi rifugiati. La maggior parte non vorrebbe parlare di ciò che ha vissuto. Hanno molti altri problemi da risolvere adesso. La loro principale preoccupazione è trovare lavoro e risparmiare per mandare denaro alle famiglie, per pagare i debiti contratti per la liberazione dalle mani dei trafficanti. La nuova legislazione israeliana, che vieta il diritto al lavoro ai richiedenti asilo, non fa che complicare la loro già precaria situazione.

Tuttavia, alcuni sono consapevoli di quanto sia importante denunciare, per evitare che altri subiscano la stessa sorte e, soprattutto, per convincere i giovani nei loro Paesi di origine a non intraprendere un viaggio che porta direttamente in braccio alla morte.

Mi sconvolge particolarmente la sofferenza delle donne. Alcune “pellegrinano” da un ufficio sociale all’altro, e ogni organizzazione chiede loro di raccontare le violenze e i soprusi subiti durante la prigionia. Nel mio intimo risuona il loro grido: «Fino a quando devo frugare nella mia ferita senza ottenere risposte, mentre tutti sono lì a guardare la mia vergogna e il mio dolore?». Quando sento la stanchezza o lo scoraggiamento in agguato, il loro appello mi fa riprendere le forze.

Quando il 10 gennaio scorso i Medici per i diritti umani hanno convocato un’assemblea straordinaria per informare dottori e volontari del progetto di ricerca sul traffico di esseri umani nel Sinai, il volto e la voce delle vittime erano quelli di Aziza.
Vorrei dirvi GRAZIE con la voce delle centinaia di rifugiati che quotidianamente affollano queste stanze. Persone ferite nel corpo e nell’anima, umiliate e colpite nella loro dignità. Per molti di loro, voi siete l’unico legame con la vita, l’unico punto di riferimento, un luogo dove ricevere rispetto, accoglienza, attenzione, affetto... con loro e per loro voglio dirvi grazie. Ma vorrei anche sollecitare, ancora una volta, la vostra collaborazione e il vostro ulteriore impegno per mettere un punto fermo a questa sofferenza disumana.

Anch’io sono nata in Africa. La mia vocazione missionaria mi ha portato sulle strade dell’Etiopia prima e del Sudan poi, in tempi di persecuzione e di guerra. Posso dire che, nella mia ormai lunga esperienza, non ho mai conosciuto torture e soprusi come quelli che ascolto quotidianamente sull’inferno del Sinai. Provo orrore solo a pensare come l’essere umano possa usare una crudeltà così bestiale. Anch’io preferirei talvolta non dare credito alle testimonianze raccapriccianti che ascolto e mi sconvolgono. Tuttavia, queste persone rimettono la loro vita e la loro speranza nelle nostre mani. Hanno deciso di rompere il loro pesante silenzio per chiederci di dare voce al loro grido. Ora che conosciamo, non possiamo tacere!

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