sabato 7 luglio 2012

Canale di Sicilia: 76 profughi respinti in mare e consegnati alle carceri libiche come ai tempi di Gheddafi


di Emilio Drudi
 Li hanno bloccati nel Canale di Sicilia, in acque internazionali, mentre tentavano di raggiungere l’Italia su un vecchio barcone da pesca. Erano in 76, quasi tutti giovani eritrei e tutti richiedenti asilo, con numerose donne e bambini. Il più piccolo di due anni appena. Ad intercettarli – rileva l’agenzia di assistenza Habeshia, citando il racconto di quei disperati – sono stati “mezzi navali battenti doppia bandiera, quella libica e quella italiana”. Una motovedetta ha accostato, tagliando loro la rotta. Non c’è stato scampo: quella carretta carica di umanità in cerca di scampo e di comprensione è stata costretta a virare di bordo e a navigare, scortata, fino a una piattaforma petrolifera all’interno delle acque libiche, dove l’intero gruppo di migranti è stato preso in consegna dalla polizia di frontiera, che lo ha condotto nel porto di Tripoli. Neanche il tempo di sbarcare e i militari hanno trasferito tutti in un centro di detenzione ancora in fase di costruzione, a Sibrata Mentega Delila, una località nei sobborghi di Tripoli. Su di loro, adesso, grava la minaccia di essere riconsegnati al paese d’origine. Per molti è l’equivalente di una condanna a pesanti anni di carcere o persino alla fucilazione: fuggiti dall’Eritrea per non dover fare la guerra nell’esercito del dittatore Isaias Afewerki, sono considerati colpevoli non solo di emigrazione clandestina ma di diserzione o, peggio ancora, di tradimento.
E’ accaduto il 29 giugno. La denuncia di don Mussie Zerai, presidente di Habeshia, è circostanziata. I 76 profughi gli hanno comunicato anche i dati della motovedetta che li ha bloccati in alto mare: si chiama Napolyo 25. Loro, i 76 prigionieri, non hanno dubbi: sono convinti di essere stati intercettati da un pattugliamento congiunto italo-libico. Inducono a crederlo quelle due bandiere, libica e italiana, che sventolavano sui mezzi navali incrociati: un particolare su cui si dicono pronti a giurare.
“Il problema più urgente per questi disperati – rileva don Zerai – è quello di evitare la deportazione nel paese da cui sono fuggiti. E’ questa la prima e più pressante richiesta che hanno comunicato per telefono. Noi, come Habeshia, prestiamo a tutti loro la nostra voce per gridare al mondo che nel Mediterraneo e in Libia sono tutt’oggi violati i diritti dei richiedenti asilo”.
La conferma di come sia ignorato o soffocato l’urlo di aiuto dei profughi e, più in generale, l’inferno che si vive nelle carceri e nei centri di detenzione in Libia, viene anche da una serie di testimonianze che, raccolte per telefono e rese note dalla Fondazione Integra/Azione, sono state pubblicate di recente dalla Repubblica online. Come quella di Debesay, un ragazzo eritreo arrestato a Bengasi mentre, insieme ad altri giovani, cercava un imbarco per l’Italia, dove è rifugiata sua madre. “Qui in carcere – ha raccontato – siamo disperati, frustrati. Abbiamo provato a uscire in tutti i modi, ma non ci siamo riusciti nemmeno pagando le guardie. Scappare non è possibile, se provi a evadere vieni punito, picchiato sotto le piante dei piedi, un dolore atroce. In una cella di 30 metri quadrati siamo accalcati in più di 60, dormiamo per terra, non ci sono brande ma solo materassi sporchi o stuoie sul pavimento. Il mangiare, il più delle volte, è solo pane secco e acqua. Se stai male non ci sono medici e medicine: il tuo destino è l’abbandono e la morte… Non so che pensare, la speranza sta svanendo”.
Altrettanto drammatica la testimonianza di Mogos, un diciassettenne originario di Asmara, fuggito da un campo di addestramento dell’esercito eritreo ed ora detenuto nel carcere di Gianfuda: “Abbiamo viaggiato per 12 giorni nel deserto. Eravamo in 50 ammassati su un camion. Vicino al mare, verso Tripoli, quando sembrava fatta, i militari libici mi hanno preso insieme ai ragazzi che erano con me. La cosa più dura è non vedere il futuro, un’uscita da questo viaggio infinito. I pochi che escono dalle prigioni lo fanno per lavorare”. Alcuni detenuti – spiega infatti la Fondazione Integra/Azione – vengono comprati da ricchi libici come forza lavoro a costo zero per le proprie aziende o fattorie. Sempre meglio che il carcere, ma questa “fortuna” è riservata soltanto a chi ha il passaporto, subito sequestrato al momento dell’ingaggio per scongiurare qualsiasi tentazione di fuga. “Noi eritrei il passaporto non l’abbiamo e così non possiamo uscire neanche come lavoratori schiavi – dice Mogos – Per noi non c’è soluzione. Nessun futuro. A 17 anni sono bloccato qui all’inferno”. Anwar è un etiope di etnia oromo, la regione del sud del paese dove è molto forte l’opposizione al regime del presidente Meles Zenawi: “Sono uscito dalla prigione di Gianfuda da quasi un mese, mi ha riscattato un libico che aveva bisogno di manodopera. Poi, pagando, sono riuscito a continuare il viaggio verso il mare… Sono stato prigioniero prima a Kufra e poi a Gianfuda. E’ stato terribile: ci picchiavano regolarmente e puntualmente ogni sera, non avevamo cibo, non c’erano medicine né dottori. In Libia non ci sono diritti, non c’è governo”.
Storie analoghe sono state raccontate da tanti altri. Come Aroon e Meron, eritrei, o Salua, somala. Urla disperate dall’inferno. Ma l’Italia ha ritenuto di rinnovare con la Libia il trattato di amicizia firmato a suo tempo da Gheddafi e Berlusconi. Senza porsi neanche il problema di pretendere prima, almeno, dal governo rivoluzionario, la garanzia del rispetto dei diritti umani. Anzi, secondo quanto denunciato più volte da Amnesty International, per il contrasto dell’emigrazione clandestina, sono stati ribaditi anche i respingimenti indiscriminati in mare. Questo capitolo è stato sottoscritto il 3 aprile dal ministro italiano dell’interno Maria Cancellieri e da quello libico Fawzi Al Taher Abdulali. Il testo integrale non è noto ma, stando alle indiscrezioni pubblicate dalla stampa, sembra pieno di equivoci. Come il punto relativo alla costruzione di “un centro sanitario a Kufra per garantire i servizi sanitari di primo soccorso a favore dell’immigrazione illegale”. A Kufra, in effetti, arrivano migliaia di migranti da tutta la regione sub sahariana e dal Corno d’Africa. “Ma – denuncia Amnesty – non è mai stato un centro sanitario, né tantomeno un centro di accoglienza: è un centro di detenzione durissimo e disumano. E i cosiddetti centri di accoglienza di cui si sollecita il ripristino, chiedendo la collaborazione della Commissione Europea, hanno a loro volta funzionato come centri di detenzione, veri e propri luoghi di tortura. Ciò, nella situazione attuale, significa che l’Italia offre collaborazione a mettere a rischio la vita delle persone che si trovano in Libia”.
C’è da chiedersi se non nascondano lo stesso equivoco e lo stesso rischio progetti come il “centro di addestramento nautico” o il “programma di addestramento delle forze di polizia”. Si tratta di eufemismi per i respingimenti in mare? I ministri degli esteri Giulio Terzi e della cooperazione Andrea Riccardi lo hanno escluso. Ma la denuncia arrivata ora da Habeshia per la vicenda dei 76 richiedenti asilo eritrei rispediti di forza a Tripoli, sembra confermare che in realtà non è cambiato nulla dai tempi di Gheddafi anche nelle tecniche di “pattugliamento” del Canale di Sicilia.
Il punto è, probabilmente, che si è andati a rinnovare un “accordo al buio” con un paese che non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato politico, sicché non si fa alcuna distinzione tra richiedenti asilo e migranti. Poco importa se arrivano a migliaia eritrei, etiopi, somali, sudanesi che fuggono da guerra e persecuzioni. “In Libia la situazione dei migranti – denuncia Amnesty – oggi è peggiore che sotto il regime”. Ma il governo Monti non sembra essersene accorto.

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