martedì 31 dicembre 2013

“Mare Nostrum”: un’altra barriera per respingere i profughi in Libia

di Emilio Drudi

Una intera squadra navale della Marina Militare. Rafforzata da aerei ed elicotteri da combattimento. La compongono la nave d’assalto “San Marco”, l’ammiraglia, sede del comando dell’intera missione, dotata anche di elicotteri a lungo raggio; due fregate lanciamissili con 250 uomini d’equipaggio e un elicottero; due corvette, due pattugliatori d’altura e una unità da trasporto per il supporto logistico. La copertura aerea è assicurata da due elicotteri della Marina, muniti di apparecchiature di ricerca elettroniche e agli infrarossi, dislocati a Lampedusa o a Pantelleria ma che possono essere imbarcati direttamente sulla “San Marco”; altri quattro elicotteri e un aereo pattugliatore, destinati al presidio di Lampedusa; un bimotore per la vigilanza notturna, che opera in collaborazione con due elicotteri specializzati in voli di ricerca e soccorso. In più, un velivolo senza pilota, uno dei droni-spia dell’Aeronautica che, in grado di operare per venti ore consecutive, realizzando riprese elettro-ottiche, all’infrarosso e radar, completa la fitta rete di sorveglianza sul Canale di Sicilia già assicurata dai radar della Guardia Costiera, della Finanza e dalle stazioni del sistema di identificazione della Marina Militare. Tra equipaggi imbarcati, piloti e personale di terra negli aeroporti, una forza di circa 1.500 marinai, avieri e militari delle forze speciali, incluso il contingente di fanti di Marina della brigata San Marco. E’ quanto ha schierato l’Italia per il programma “Mare Nostrum”, la missione di controllo del Mediterraneo decisa dopo la strage di Lampedusa ed entrata a regime circa due mesi fa.
Il Governo e, in particolare, i ministri della difesa Mario Mauro e dell’interno Angelino Alfano, hanno insistito sul carattere pacifico e umanitario dell’operazione. In sostanza, però, è stata predisposta una grossa task-force che si direbbe destinata ad un quadro di guerra, fa notare Antonio Mazzeo, un giornalista impegnato sui temi della pace e dei diritti umani, che ha analizzata il piano nei dettagli, sottolineando come i mezzi davvero pacifici siano soltanto i due elicotteri attrezzati per la ricerca e il soccorso, dirottati a Lampedusa dalla base di Cervia. Esattamente l’opposto, dunque, di quanto era lecito aspettarsi per una “missione umanitaria”.
Al pari di Antonio Mazzeo, sono arrivati a questa stessa conclusione non soltanto istituzioni e organizzazioni che da sempre chiedono all’Italia e all’Europa una politica più aperta nei confronti dei migranti, ma anche fonti non certamente imputabili di “buonismo”, come il Sole 24 Ore, il quotidiano della Confindustria. “Anche se la missione annunciata è stata definita umanitaria e di soccorso, desta qualche sospetto la composizione dello strumento aeronavale messo in campo”, ha scritto il giornale economico, evidenziando le caratteristiche operative della potente unità da sbarco e delle fregate lanciamissili, certamente inadatte per soccorrere gente in balia delle onde o barconi in procinto di affondare. “Si tratta – ha spiegato il Sole – di navi di oltre tremila tonnellate, pesantemente armate, con poco spazio a bordo per ospitare naufraghi e molto onerose”, mentre risultano l’ideale per azioni militari “da coordinare magari con il governo libico”.
La contraddizione implicita in questa imponente task-force appare evidente. O meglio, è evidente rispetto agli “scopi umanitari” di soccorso a mare con cui è stata dipinta dal Governo la missione “Mare Nostrum”. Viceversa, la forza in campo è perfettamente coerente con quello che sembra rivelarsi di giorno in giorno l’obiettivo vero del programma. Cresce la sensazione, difatti, che si miri non tanto a salvare i fuggiaschi che, spinti da fame, guerre e persecuzioni nel proprio paese, sfidano il mare su carrette che a stento galleggiano, quanto a impedire nuovi arrivi di profughi in Italia, bloccando gli imbarchi direttamente in Libia o intercettando i tanti battelli della disperazione appena hanno lasciato i porti africani e sono ancora all'interno o ai margini delle acque territoriali di Tripoli. Lo ha evidenziato lo stesso Sole 24 Ore riferendosi, ad esempio, all'utilizzo dei droni e ai compiti delle fregate o dei fucilieri di Marina. “Grazie alla loro autonomia di volo – ha scritto il quotidiano – i droni possono sorvegliare costantemente i porti di partenza dei barconi, consentendo alle navi militari di raggiungerli appena al di fuori delle acque libiche”. Quanto ai battelli da sbarco e ai fucilieri ospitati sull'ammiraglia, ha aggiunto, si tratta di “mezzi e truppe idonei a riaccompagnare in sicurezza sulle coste libiche gli immigrati recuperati in mare, sotto la scorta deterrente delle lanciamissili”.
Un’analisi analoga o addirittura più esplicita – fa notare Antonio Mazzeo – l’ha fatta Leonardo Tricarico, l’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica, invocando un accordo diplomatico con Tripoli ed eventuali altre capitali nordafricane, “per far si che i droni, anziché essere impiegati in una ricerca senza meta in mare aperto, vengano utilizzati per il pattugliamento delle coste libiche, per individuare in maniera precoce le attività preparatorie all'imbarco e fermarle per tempo”.
Ecco il punto. Il piano “Mare Nostrum” sembra finalizzato soprattutto a vigilare sul “confine” mediterraneo dell’Italia e dell’Europa. Il ministro Angelino Alfano, del resto, non ha esitato a dirlo anche all'indomani della strage di Lampedusa, quando, a margine della cerimonia farsa di Agrigento in memoria delle vittime del tre ottobre, ha insistito che, pur profondamente partecipe e scossa dalla tragedia, l’Italia non avrebbe potuto dimenticare il dovere di difendere la sua frontiera perché, ha specificato, “una nazione che non sa difendere i propri confini non è una nazione degna di questo nome”. Come se alle porte ci fossero un’orda di terroristi sanguinari o un esercito invasore e non frotte di disperati. Senza contare che questa “frontiera” è stata spostata molto più a sud delle acque territoriali italiane: coincide con le sponde africane del Mediterraneo, in attesa magari di spingerla ancora più lontano, lungo il confine sahariano della Libia, per bloccare i fuggiaschi e i migranti in pieno deserto, prima che  possano varcarlo, come si è impegnato a fare il presidente Ali Zeidan nell’accordo firmato a Roma il 4 luglio scorso con il premier Enrico Letta.
Ci sono fin troppi elementi, insomma, per sospettare che l’operazione si riveli una riproposizione, mascherata da aiuto umanitario, della sciagurata politica dei blocchi indiscriminati in mare adottata dal governo Berlusconi nel 2009: quella politica che ha portato ad autentiche deportazioni forzate a Tripoli di numerosi uomini e donne e che è poi costata all’Italia, nel 2012, una umiliante condanna da parte della Corte Europea per i diritti dell’uomo. Questo sospetto – come fa notare Antonio Mazzeo – si è fatto strada con forza anche tra alcuni giuristi e tra numerose associazioni antirazziste e di difesa dei diritti umani. Desta perplessità, in particolare, il fatto che il ministro Alfano abbia indicato come destinazione dei fuggiaschi intercettati in mare eventuali “porti sicuri” in Africa. Il professor Fulvio Vassallo Paleologo, membro dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, ha rilevato che, riportando i migranti in presunti “porti sicuri” non italiani, “c’è il rischio fondato che si ripetano i respingimenti verso i paesi che non garantiscono la tutela dei diritti umani, come è accaduto nel 2009, quando la Guardia di Finanza italiana riportò in Libia decine di migranti”.
Già, in Libia. Ancora una volta la Libia, grazie agli accordi bilaterali, continuamente rinnovati dal 2009 fino ad oggi, con i quali Roma assegna a Tripoli il compito di “gendarme” contro l’emigrazione. Dimenticando che in questo paese non ci sono “porti sicuri” per i disperati in fuga da eccidi e persecuzioni, perché è anche la Libia stessa a perseguitarli, considerando un crimine il loro ingresso forzatamente clandestino, gettandoli in lager dove subiscono violenze e soprusi di ogni genere, minacciando di riconsegnarli allo Stato dal quale sono scappati. Accade tutti i giorni. L’ultimo caso è della mattina di Natale, quando 240 profughi eritrei rinchiusi nel campo di detenzione di Ajdabiya, in Cirenaica, sono stati prelevati da un gruppo di militari armati, stipati su camion-container a spintoni e a colpi di manganello e condotti fino a Misurata, 650 chilometri più a ovest, dove li ha presi in consegna un reparto di miliziani. Ora la sorte di quei disperati è in balia di milizie irregolari fuori controllo, che non rispondono a nessuno. Meno che mai al governo. Nessuno sa chi ne ha deciso il trasferimento e perché. L’unica cosa certa è che ora sono molto meno al sicuro di quanto fossero nella situazione, pure terribile, di Ajdaniya. Lì, almeno, le famiglie non erano state separate: coniugi, genitori e figli vivevano insieme. Secondo le ultime notizie arrivate dalla Libia, invece, dopo Misurata uomini e donne, mogli e mariti, sono stati costretti a dividersi. I maschi sono rinchiusi nel lager di Khoms, dove hanno trovato altri 140 profughi in condizioni disumane, segregati da due mesi in uno stanzone buio e senz’aria, tormentati da maltrattamenti e umiliazioni quotidiane, bastonati a sangue al minimo cenno di protesta. Nel gruppo, 185 in tutto, sono stati inclusi anche ragazzini di 15-16 anni, strappati con forza alle madri, che cercavano di nasconderli e trattenerli. Le 55 donne, insieme agli undici bambini più piccoli, fino a 11 anni di età, incluso un bimbo nato proprio ad Ajdabiya il giorno prima del trasferimento forzato, si trovano nel centro di detenzione di Garabulli, una vera e propria prigione, insieme ad altre tredici giovani, alcune con i figli piccoli, catturate in una delle tante retate condotte dalla polizia nella regione di Tripoli. Sono terrorizzate: isolate dai mariti o comunque dagli uomini adulti della famiglia, i miliziani possono abusarne in qualsiasi momento, senza che ci sia qualcuno a difenderle. Sanno che è accaduto più volte. Che accade, anzi, quasi sistematicamente nei centri di detenzione femminili. E c’è il timore che buona parte di loro, uomini, donne e persino i ragazzini, possano essere venduti come merce: braccia per il lavoro forzato o schiavi per le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani e che, sulla scia di quanto accade da anni nel Sinai, hanno messo radici anche in Libia.

Ecco, l’operazione Mare Nostrum, riconsegnando profughi e migranti ai “porti sicuri” libici, rischia di moltiplicare episodi come questo. Legando ancora una volta il nome dell’Italia ai soprusi, alle angherie, alle violenze, ai ricatti, alle torture che si consumano nei centri di detenzione di Tripoli.

venerdì 27 dicembre 2013

Un Natale da schiavi per 240 profughi eritrei


di Emilio Drudi

Un Natale da schiavi. Qualche mese fa si sono salvati a stento nel mare in tempesta, a bordo di un barcone in balia delle onde. Respinti sulla costa libica dalla quale erano partiti verso Lampedusa e subito rinchiusi in un centro di detenzione, dalla sera del 25 dicembre sono in balia di un gruppo di miliziani. C’è il timore che possano essere venduti come merce: braccia per il lavoro forzato o schiavi per le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani.
E’ la sorte di 240 profughi eritrei. L’ultima tappa di un’odissea che, per quasi tutti, si trascina da un anno e passa. L’ha raccontata uno di loro, chiedendo disperatamente aiuto a don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia. Sono arrivati in Libia dal Sudan o dall’Etiopia per vie e in tempi diversi, attraverso il Sahara. Varcato il confine libico meridionale, in pieno deserto, molti sono passati dall’inferno delle carceri e dei lager di Tripoli, finché nell’autunno scorso hanno potuto comprarsi un imbarco di fortuna verso l’Italia. La traversata non è riuscita. Investita da una violenta burrasca, la carretta sulla quale erano stati caricati ha dovuto invertire la rotta. Alcuni di loro, almeno tre, caduti in acqua, sono scomparsi in pochi istanti. Impossibile aiutarli. Poi, quando in qualche modo sono giunti a terra, hanno trovato ad attenderli la polizia. Neanche il tempo di fiatare e sono stati trasferiti nel centro di detenzione di Ajdabiya, una struttura per rifugiati e migranti situata poco lontano dal litorale, nella zona nord est del paese, in Cirenaica, aperta nel 2009. Una delle più tristemente famose, nominalmente gestita dal ministero degli interni ma dove fame e sete, maltrattamenti e pestaggi, violenze e torture sono la norma. Sono rimasti lì sino alla mattina di Natale.
Si era fatto giorno da poco quando una squadra di militari armati li ha prelevati, costringendoli a salire su un piccolo convoglio di camion-container, gli autocarri speciali, con il piano di carico completamente chiuso, che vengono usati di solito per i trasferimenti dei prigionieri, nascondendoli alla vista di tutti. Colpi di spranga e con i calci del fucile per chi tentava di protestare. E, per tutti, la minaccia di deportarli in Eritrea, il paese dal quale sono fuggiti e dove, se rientrano, li aspettano processi, galera e anche peggio, come migranti clandestini o come disertori. Stipati uno sull’altro, hanno viaggiato per ore lungo la costa, superando numerosi posti di blocco, fino alla periferia di Misurata, 650 chilometri più a ovest. Prima di entrare in città, l’ennesimo posto di blocco. I miliziani armati che lo presidiavano forse li stavano aspettando: fermata l’autocolonna, li hanno presi in consegna.
“A quanto mi hanno riferito – racconta don Zerai – si tratta dei miliziani che controllano la regione di Misurata. Tutto lascia credere che sia l’ennesimo capitolo del traffico di esseri umani. La base principale delle organizzazioni che gestiscono la traversata del Mediterraneo per i profughi, su navi “a perdere” stracariche, è a Tripoli. E’ sulla costa tripolina, a circa 200 chilometri di distanza da Misurata verso occidente, che gli scafisti ‘catturano’ i fuggiaschi arrivati in Libia, per mandarli allo sbaraglio, spesso alla morte, nel Canale di Sicilia. Prima, però, ci vogliono guadagnare anche i miliziani che dai giorni della rivoluzione contro Gheddafi non hanno mai deposto le armi, esercitano di fatto il potere reale in gran parte del territorio e probabilmente hanno fatto di questi ricatti una fonte lucrosa di autofinanziamento. Da ogni prigioniero, soltanto per rilasciarlo e consentirgli di proseguire fino a Tripoli, pretendono mille dollari. Altrimenti si finisce in uno dei loro lager, come schiavi. Ed è appena l’inizio. Per l’imbarco gli scafisti, spesso in combutta con gli stessi miliziani o con poliziotti corrotti, chiedono almeno 1.500 dollari a testa. Talvolta anche di più. Oltre 1.500 dollari per prendere il largo su battelli che a malapena galleggiano. Come dimostrano le migliaia di vittime inghiottite dal Mediterraneo negli ultimi anni. E sempre più spesso non basta neppure pagare: anziché essere imbarcati, i profughi vengono venduti agli schiavisti nel sud della Libia, al confine con il Niger o il Chad, dove sono tenuti in ostaggio fino a quando i familiari non riescono a versare il riscatto. Altre migliaia di dollari. Il ‘mercato’ organizzato dai predoni nel Sinai ha fatto scuola: ora lo stesso sistema viene adottato anche da trafficanti libici. Ormai è un circolo vizioso: lo stiamo denunciando da anni. Il 2013 che sta per chiudersi è stato terribile per i migranti e il nuovo anno non promette bene. Anzi, va sempre peggio perché i ‘potenti della terra’ non stanno facendo neanche il minimo per prevenire questo orrore e per salvare queste persone da sofferenze indicibili”.
Il caso di Misurata è emblematico: quei 240 disperati non sanno nelle mani di chi sono finiti, chi e perché ne ha deciso il prelievo da Ajdabiya, se sono stati trasferiti da militari fedeli al governo o da miliziani fuori controllo, magari collegati a gruppi mafiosi. Di certo, ora sono molto meno al sicuro di quanto fossero nella situazione, pure terribile, del campo di Ajdabiya. Lì, almeno, le numerose famiglie del gruppo non erano separate: coniugi, genitori e figli vivevano insieme. Secondo le ultime notizie arrivate dalla Libia, invece, dopo Misurata uomini e donne, mogli e mariti, sono stati costretti a dividersi: I maschi sono ora rinchiusi nel lager di Khoms, attivo dal 2007, dove hanno trovato altri 140 profughi in condizioni disperate, segregati da due mesi in uno stanzone buio e senz’aria, tormentati ogni giorno da maltrattamenti e umiliazioni, bastonati a sangue al minimo cenno di protesta. Nel gruppo, 185 in tutto, sono stati inclusi anche ragazzini di 15-16 anni, strappati con la forza alle madri che cercavano di nasconderli e trattenerli. Le 55 donne, insieme agli undici bambini più piccoli, fino a 11 anni di età, incluso un bimbo nato proprio ad Ajdabiya il giorno prima del trasferimento forzato, si trovano nel centro di detenzione di Garabulli, una vera e propria prigione, insieme ad altre tredici giovani, alcune con i figli piccoli, catturate in una delle tante retate condotte dai miliziani in tutto il paese. Sono terrorizzate: isolate dai mariti o comunque dagli uomini adulti della famiglia, i miliziani possono abusare di loro in qualsiasi momento, senza che nessuno possa difenderle. Sanno che è accaduto più volte. Che accade, anzi, quasi sistematicamente nei centri di detenzione femminili.   
“Per i profughi va peggio di anno in anno…”, denuncia don Zerai. E non solo in Libia. Lo conferma l’allarme che, sempre il giorno di Natale, è arrivato dal Sud Sudan, sconvolto dalle stragi della guerra civile. Circa 500 eritrei – oltre 420 uomini, una cinquantina di donne tra cui 7 in stato di gravidanza, e 25 bambini – hanno trovato riparo in un campo improvvisato dal Commissariato Onu per i rifugiati a Bor, il capoluogo dello stato petrolifero di Jongley, conquistato dai ribelli del vicepresidente Riek Machar e distante 200 chilometri da Juba, la capitale, rimasta in mano al presidente Salva Kiir. Si tratta di un campo enorme, vicino al Nilo: ospita oltre 14 mila sfollati ma, essendo un complesso d’emergenza, manca anche di strutture essenziali: tende e alloggi sufficienti per tutti, servizi igienici e medici, una protezione adeguata. Peggio, scarseggiano persino il cibo e l’acqua mentre, favoriti dal sovraffollamento, sono esplosi grossi problemi sanitari: i malati aumentano e c’è il rischio di contagio.

“Tutti gli Stati si sono preoccupati di evacuare i propri cittadini presenti nel Sud Sudan – protesta don Zerai – Gli unici ad essere abbandonati a se stessi sono gli eritrei. Le loro case e i loro negozi sono stati saccheggiati e distrutti. Costretti a scappare, adesso si trovano presi in mezzo a una guerra feroce per il controllo del petrolio, che rischia di sfociare in massacri etnici ancora più sanguinosi di quelli registrati finora. Eppure non una parola si è sentita da parte del regime di Asmara. Per trovare scampo questi 500 sfollati chiedono di essere trasferiti in Uganda, uno dei paesi più vicini al centro allestito dall’Onu a Bor. La speranza è che il Commissariato per i rifugiati riesca ad evacuarli organizzando un corridoio umanitario, d’intesa con la comunità internazionale. Quanto all’ennesima emergenza esplosa in Libia, con i 240 profughi in balia dei miliziani di Misurata, prima ancora dell’Onu e di altre organizzazioni internazionali, dovrebbe muoversi il Governo italiano. L’Italia ha un accordo con Tripoli in materia di emigrazione. Proprio in base a questo trattato, allora, chieda di far luce sulla deportazione dal campo di Ajdabiya. Chieda che i prigionieri siano sistemati in un luogo sicuro, accessibile alle istituzioni umanitarie. Chieda che vengano inseriti in un sistema di protezione e di insediamento nei paesi disposti ad ospitarli o comunque ad offrire un’assistenza internazionale. E chieda, pretenda finalmente da Tripoli il rispetto dei diritti umani per tutti i fuggiaschi e i migranti che arrivano in Libia”.  

APPELLO CONTRO L’ ILLEGITTIMA LIMITAZIONE DELLA LIBERTA’ DI 17 MIGRANTI VITTIME DEL NAUFRAGIO A LAMPEDUSA

L'ASGI, come parte della Campagna LasciateCIEntrare diffonde il seguente appello.

APPELLO CONTRO L’ ILLEGITTIMA LIMITAZIONE DELLA LIBERTA’ DI
17 MIGRANTI VITTIME DEL NAUFRAGIO A LAMPEDUSA

A seguito dei drammatici naufragi dello scorso ottobre a Lampedusa, la campagna LasciateCIEntrare denuncia che ad oggi ben 17 migranti sono ancora trattenuti nel Centro di prima accoglienza ed assistenza dell’isola in condizioni di grave limitazione della loro libertà personale. Secondo quanto dichiarato dal ministro Alfano in Parlamento, per la necessità di essere sentiti dall’autorità giudiziaria inquirente, sembrerebbe in qualità di persone informate sui fatti nel procedimento presso il Tribunale di Agrigento contro i presunti scafisti, o contro i responsabili del reato di tratta ( dunque con la competenza della DDA di Palermo) con le forme dell’incidente probatorio (una anticipazione della formazione della prova alla fase delle indagini rispetto a quella propria del dibattimento).
Se è legittimo che gli inquirenti procedano ad acquisire le loro testimonianze senza attendere il giorno dell’eventuale processo, perché i testimoni nel frattempo potrebbero non essere più reperibili o essere sottoposti a violenza o minacce per dichiarare il falso, altrettanto non può dirsi se, per salvaguardare il buon esito delle indagini, costoro sono mantenuti in una sorta di “prigionia di fatto” nello stesso centro di Lampedusa ove loro stessi hanno documentato la sottoposizione a trattamenti disumani e degradanti, che ha aperto un squarcio drammatico sull’accoglienza che si trasforma in detenzione amministrativa, non solo a Lampedusa, ma anche nel resto d’Italia.
Occorre ricordare che quello di Lampedusa non è un Centro di identificazione ed espulsione, ma un Centro di primo soccorso ed accoglienza, utilizzato impropriamente come un CIE, e che comunque i 17 migranti non risultano essere sottoposti a provvedimenti di respingimento immediato o differito né ad espulsione, pertanto non vi è alcun titolo per il loro trattenimento “di fatto”, tant’è che la loro privazione della libertà non è stata convalidata da alcun giudice.
Sarebbero solo ragioni di opportunità legate al buon esito delle indagini a tenerli lì, ma ciò non è consentito. Infatti, la nostra Costituzione prevede – all’art. 13 – che ogni forma di restrizione della libertà personale possa essere adottata solo nei casi espressamente previsti dalla legge e a seguito di un provvedimento di un giudice: presupposti che difettano entrambi nel caso in discussione, non c’è legge e non c’è atto giudiziale che consenta questa operazione.
Diverso sarebbe se costoro fossero indagati per reati che consentano l’emissione di misure cautelari personali, ma così non è, infatti nessuna misura è stata adottata nei loro confronti, né il reato di ingresso illegale consente l’applicazione di misure coercitive. Non risulta neppure che siano indagati per il reato di immigrazione clandestina, che comunque non prevede misure limitative della libertà personale, salvo la successiva espulsione e quindi l’eventuale trattenimento in un CIE.
Nemmeno l’eventuale dubbio sulle loro generalità e l’assenza di documenti di identificazione può comportare il trattenimento di fatto, posto che la sottoposizione al c.d. “fermo per identificazione” non può superare le 12 ore, e qui la situazione perdura da mesi!
Inoltre, si tratta di testimoni e vittime di gravi reati che andrebbero protetti e tutelati tramite il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, previsto (art. 11, lett. c bis) DPR 394/99) proprio nei casi in cui la presenza dello straniero nel territorio dello Stato sia indispensabile in relazione all’accertamento di gravi reati, esattamente come nel caso in esame.
E invece di utilizzare gli strumenti normativi esistenti, le istituzioni italiane preferiscono violare palesemente la legalità nei confronti di categorie vulnerabili, già vittime di trattamenti inumani e degradanti perpetrati da aguzzini improvvisati e prezzolati, piegandola ad esigenze di tutela di indagini a fini di giustizia sulla pelle di inerti migranti.
Chiediamo la immediata cessazione del trattenimento dei 17 profughi ancora rinchiusi nel CPSA di Contrada Imbriacola a Lampedusa e la immediata riconversione del centro alla sua originaria destinazione di struttura di “prima accoglienza e soccorso” dove i migranti dovrebbero transitare per un massimo di 48-72 ore, come richiesto peraltro in un recente rapporto di ME.DU ( Medici per i diritti dell’Uomo) e come da tempo sollecitato da tutte le più importanti associazioni ed agenzie umanitarie, come ASGI, CIR, ACNUR.
Su questa vicenda e più in generale sulle modalità di trattenimento dei profughi giunti negli ultimi mesi a Lampedusa sarà intensificata una campagna di denuncia e di mobilitazione, ricorrendo anche alle istanze della giustizia internazionale e raccogliendo ulteriori testimonianze su come l’accoglienza dei migranti si stata spesso trasformata in detenzione amministrativa senza titolo.

27 dicembre 2013

campagna LasciateCIEntrare
FB LasciateCIEntrare


A.S.G.I. - Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione
3470091756 -  info@asgi.it
www.asgi.it

martedì 24 dicembre 2013

Khalid come i sopravvissuti del 03 ottobre 2013 nel CSPA di Lampedusa ostaggi della "Giustizia"

A TUTTI GLI ORGANI DI STAMPA CON INVITO ALLA DIFFUSIONE

L’associazione Borderline Sicilia Onlus trasmette il secondo comunicato stampa redatto dagli avvocati di Khalid, il ragazzo siriano autore del video con il quale ha reso pubblico il trattamento riservato agli ospiti del CSPA di Lampedusa, presso il quale si trova ancora trattenuto, per esigenze di giustizia, da circa due mesi insieme ad altri 26 migranti.


COMUNICATO STAMPA

Catania, lì 23/12/13


A seguito di verifiche effettuate presso le autorità giudiziarie e di Polizia, apprendiamo che il nostro assistito si trova all’interno del CSPA di Lampedusa da 51 giorni, in qualità di persona informata sui fatti a disposizione della Procura di Palermo nell’ambito di un procedimento pregresso.

Appare inaccettabile che un soggetto disponibile a collaborare con le autorità giudiziarie venga privato della libertà personale senza che gli sia comunicato alcun provvedimento formale.

Khaid, autore del video sui trattamenti antiscabbia all’interno del centro di Lampedusa, si trova ancora nella struttura in cui si sarebbero consumati i fatti oggetto delle indagini avviate dalla Procura della Repubblica di Agrigento.

Riteniamo prioritario pertanto che Khalid venga immediatamente trasferito in un luogo sicuro da eventuali condizionamenti che possano essere di ostacolo al sereno svolgimento delle indagini, nonché a garanzia della propria incolumità, ponendo fine al suo illegittimo trattenimento.

Avv.ti Paola Ottaviano e Germana Graceffo

Collegio difensivo Khalid

lunedì 23 dicembre 2013

Centri per rifugiati: cresce la tensione, ma il Governo si defila

di Emilio Drudi

Il ministro dell’interno Angelino Alfano stava parlando alla Camera sul video-choc che ha documentato il trattamento inumano riservato ai profughi nel centro accoglienza di Lampedusa, quando è esplosa la notizia della terribile protesta attuata proprio a Roma, a meno di dieci chilometri dai palazzi del potere, da otto migranti ospiti del Cie di Ponte Galeria: otto disperati che si sono cuciti la bocca per urlare la impossibilità di farsi ascoltare contro l’indifferenza che in Italia circonda la tragedia di tanti giovani come loro. Quel grido di dolore ha squassato l’ipocrisia che stavano dimostrando il Governo e la politica anche di fronte all'umiliazione e al tormento dei giovani rifugiati africani che, in una struttura dello Stato, nudi e costretti in fila all'aperto, venivano spruzzati con un liquido anti scabbia. Una routine sconvolgente, che sarebbe rimasta nascosta senza le immagini “rubate” con il suo cellulare da uno dei profughi, un ragazzo siriano.
Nel suo intervento in Parlamento, Alfano non è andato al di là delle solite promesse e rassicurazioni generiche. L’unico provvedimento concreto è stata la revoca del contratto alla cooperativa che finora ha gestito il campo di Lampedusa. Meno del minimo. Niente, anzi, di fronte allo sbando nel quale sono precipitate da anni tutte le strutture destinate ad ospitare fuggiaschi e migranti: i centri di prima accoglienza (Cpa); i centri di assistenza per i richiedenti asilo (Cara); i centri di identificazione ed espulsione (Cie), vere e proprie carceri, questi ultimi, in cui si può restare rinchiusi per mesi, senza aver commesso alcun reato e senza processo. Alfano, a nome del Governo, ha glissato ancora una volta. Su tutto. Non ci ha pensato neanche un attimo a mettere in discussione il sistema di accoglienza in vigore nel nostro Paese, una vera e propria fabbrica di sofferenze, che trasforma i profughi in non persone, prive di ogni diritto, “invisibili” consegnati allo sfruttamento e al lavoro nero e costretti a vivere a migliaia in rifugi di fortuna come, a Roma, il palazzone abbandonato della Romanina (oltre 1.500 ospiti), un altro edificio in disuso nella periferia del Collatino (più di mille “inquilini”), la baraccopoli sull’argine dell’Aniene (tra i 150 e i 200 accampati) a Ponte Mammolo.
Il solito silenzio assoluto. Eppure, proprio in concomitanza con il filmato del Tg-2 in discussione alla Camera, sono scoppiati numerosi altri casi a denunciare come il trattamento inumano documentato a Lampedusa sia in realtà la regola in tutta Italia, in strutture concepite come prigioni, vecchie, inadeguate e sempre così sovraffollate che le condizioni di vita diventano di per sé impossibili, spesso aggravate anche dalla insensibilità di chi ha il delicato compito della gestione, dalle lungaggini della burocrazia, dalle continue “non risposte”. In una parola, dall’insensibilità di uno Stato che accoglie migliaia di disperati come profughi, ma poi li abbandona al proprio destino. E’ una tragedia che si consuma giorno per giorno, ma nascosta sotto una coltre pesante di “silenziamento”: ai tempi del ministro leghista Roberto Maroni agli interni, si è persino arrivati alla vera e propria censura, con il divieto ai giornalisti di accedere ai centri di accoglienza di tutti i tipi: Cpa, Cara e Cie.
La protesta sconvolgente di Ponte Galeria ha voluto denunciare questo muro di omertà che copre i ritardi, l’indifferenza, gli abusi. Gli otto maghrebini, quattro marocchini e quattro tunisini, che si sono cucite le labbra con un ago ricavato dalla parte metallica di un accendino da due soldi e il filo strappato a una coperta, hanno fatto capire di essere decisi a portare avanti la loro azione ad oltranza, rifiutando anche il cibo: accettano solo un po’ d’acqua, che bevono con una cannuccia. A loro, domenica mattina, si sono uniti altri due migranti, sempre maghrebini, anch’essi cucendosi la bocca e iniziando lo sciopero della fame. Una contestazione estrema, come estrema è la disperazione e la condizione dei migranti nei Cie.
Uno sciopero della fame è in corso da quattro giorni anche al centro di prima accoglienza di Cagliari. Fa seguito alla sommossa scoppiata tra gli eritrei trasferiti da Lampedusa dopo lo scandalo del filmato e sedata a fatica dalla polizia. Si tratta di circa 80 giovani, in maggioranza uomini ma anche numerose donne, di cui cinque in stato di gravidanza. Pensavano che, dopo i mesi trascorsi come confinati, la loro odissea fosse finalmente terminata. Invece si sono ritrovati ad Elmas, in un altro campo simile a quello che avevano appena lasciato. Anzi, ancora più militarizzato, perché è adiacente all’aeroporto. Da qui la rivolta. Una decina hanno anche tentato la fuga, gettandosi in mare: due hanno rischiato di annegare e sono stati ripresi, di otto si è persa ogni traccia. Gli altri, appena arrivati nella struttura d’accoglienza, allestita come una caserma o un carcere, hanno deciso tutti insieme di rifiutare acqua e cibo. “Perché – hanno urlato – ci avete messo in questa specie di prigione? Dopo tutto quello che abbiamo sofferto nel deserto, in Libia e in mare, ora ci rinchiudete in una base militare. Qual è la nostra colpa, forse quella di aver cercato la libertà?...”. Questo sogno di libertà lo stanno inseguendo non da noi ma in altri stati europei, dove hanno familiari e parenti pronti ad accoglierli e ad aiutarli. Così rifiutano di registrarsi e di rilasciare le proprie impronte digitali, per non essere poi costretti a restare in Italia, come prevede il trattato di Dublino, che vincola i rifugiati al paese nel quale hanno chiesto asilo. Ricordano che un loro compagno, Mulue Ghirmay, si è suicidato nel Cara di Mineo, nel Catanese, proprio per questo: voleva raggiungere una delle sue sorelle in Svizzera o in Norvegia, ma si è trovato di fronte la barriera invalicabile eretta dalle cancellerie europee e dalla ottusa burocrazia italiana.
Anche il Cara di Mineo è in rivolta. Proprio sulla scia della scelta estrema di Mulue Ghirmay, che si è impiccato a 21 anni, stroncato da otto mesi consumati nella vana attesa di essere ascoltato dalla commissione territoriale alla quale aveva inoltrato la richiesta di asilo. Otto mesi d’inferno e con davanti nessuna prospettiva di futuro. Otto mesi trascorsi come in prigione, in una struttura invivibile, attrezzata per un massimo di 1.200 posti ma dove, in un clima di prepotenze e abusi, vivono attualmente oltre 4 mila disperati provenienti da ben 54 nazioni diverse. Ecco perché è esplosa la rabbia dei suoi compagni di sventura che, esasperati, hanno abbandonato il centro, una ex base militare americana, dando vita a una serie di blocchi stradali e di scontri con la polizia. Come già diverse altre volte in passato. Mulue, infatti, non è la sola vittima registrata in questo complesso, isolato in mezzo alla campagna, lontano da tutto e da tutti. Secondo le ripetute denunce dell’agenzia Habeshia, ci sarebbero stati almeno altri quattro morti per i disagi e le scarse cure mediche. L’ultimo, nel gennaio scorso, è una ragazza eritrea di 28 anni, incinta di 4 mesi, sofferente di aneurisma all’aorta eppure costretta a rimanere nel caos del Cara. Prima di lei, per varie patologie, un giovane pakistano, un maliano e un ghaniano. Da sempre, del resto, la Ong Medici per i diritti umani denuncia che, in tutte le strutture che ospitano profughi e migranti, l’assistenza sanitaria è del tutto inadeguata, spesso solo teorica. Ma questi appelli sono rimasti inascoltati. Così come le richieste di prevedere anche ambulatori di psicologi, per occuparsi almeno dei casi più vulnerabili, dei “malati dentro”.
Non c’è ormai un solo centro d’accoglienza dove la tensione non sia al massimo. Lo denuncia anche il deputato del Pd Khalid Chaouki, di origine marocchina, che domenica si è rinchiuso nel complesso di Lampedusa, deciso a restarci – ha dichiarato – “fino a quando le cose non cambieranno”. “Non mi muoverò da qui – ha spiegato – finché il ragazzo siriano che ha girato il video e i naufraghi del tre ottobre illegittimamente trattenuti da oltre due mesi, non saranno trasferiti. La mia è una protesta forte. Sono venuto più di una volta a Lampedusa, ma nessuno agisce. Invito tutti i miei colleghi e i sindaci a occuparsi dei centri che hanno vicini alle loro città e ad andare a vedere come funzionano le cose”.
Ecco il punto. Il Governo, le istituzioni, la politica hanno sempre rimosso questo problema enorme, seppellendolo sotto un’ipocrita immagine di buonismo, che esalta i salvataggi dei naufraghi ma tace sul trattamento poi riservato ai profughi tratti in salvo. Tace sui respingimenti indiscriminati in mare, che continuano nonostante gli impegni presi con l’Europa. Tace sull’affidamento di migliaia di uomini, donne e persino bambini alle carceri libiche – autentici lager dove accade di tutto: abusi, maltrattamenti, pestaggi, lavoro forzato, torture, stupri, ricatti – grazie agli accordi bilaterali che delegano a Tripoli il ruolo di “gendarme del Mediterraneo” contro l’emigrazione, addestrandone la polizia e rifornendolo anche di mezzi navali, auto militari speciali, armi.

Il discorso del ministro Alfano in Parlamento non si è discostato da questa ipocrisia. Le urla di protesta dolorose che arrivano da tutta Italia si sono incaricate di smentirlo prima ancora che nell’aula di Montecitorio cessasse l’eco delle sue parole.

venerdì 20 dicembre 2013

Il video choc di Lampedusa, i centri per i rifugiati e le ipocrisie


di Emilio Drudi
C’era da aspettarselo. Le immagini sconvolgenti trasmesse dal Tg2 sul trattamento inumano dei profughi, nel centro di accoglienza di Lampedusa, hanno scatenato nel governo e tra i politici una valanga di lacrime e di indignazione “d’ordinanza”. Per la verità, non subito. In un paese normale sarebbe stato lecito aspettarsi prese di posizione e interventi concreti immediati, un minuto, un’ora dopo la trasmissione, la sera stessa in cui il servizio è stato mandato in onda. Invece la valanga ha cominciato a mettersi in moto solo il giorno dopo, quando lo scandalo aveva già varcato i confini e si stava attivando l’Unione Europea. Poi è stato un susseguirsi di dichiarazioni di fuoco. A cominciare dal premier Enrico Letta il quale, promettendo l’ennesima “indagine approfondita”, ha tuonato: “Sanzioneremo i responsabili”.
La fila dietro di lui è lunghissima. Emma Bonino, ministro degli esteri, ha definito “orripilante” il video, chiedendo di “punire con severità chi è responsabile di non rispettare i valori del nostro Paese”. Beatrice Lorenzin, al vertice del dicastero della salute, riferendosi forse ai trattamenti di disinfezione e profilassi anti scabbia, ha sottolineato l’ovvietà assoluta: “Le procedure non prevedono persone nude in un capannone irrorate con un disinfettante”. Come se qualcuno possa mai aver avuto il minimo dubbio che quel trattamento è quanto meno “fuori procedura”. Annamaria Cancellieri, ministro della giustizia, ha ammesso che quel filmato choc “fa stare male” ma, con un miracolo di equilibrismo, si è mostrata molto più cauta di quando ha fatto la famosa telefonata alla sua amica Gabriella Fragni, compagna del costruttore Salvatore Ligresti, appena arrestato insieme alle figlie: “Bisogna vedere tutta la procedura cosa comporta. Prima di giudicare va fatta un’inchiesta, però quelle immagini fanno impressione, anche se può darsi che distorcono la realtà”. Il viceministro dell’interno Filippo Bubbico e il neo-presidente del Pd Gianni Cuperlo hanno allargato il tiro, chiedendo di chiudere tutti i Centri di identificazione ed espulsione, che in realtà sono autentici lager, ma sono cosa diversa e svolgono un’altra funzione rispetto al centro di accoglienza di Lampedusa.
Ancora. Cecile Kyenge, dal suo ufficio di ministro dell’integrazione, ha sollecitato un’azione immediata del Governo: “Il Governo – ha dichiarato – deve intervenire per ripristinare un’immagine diversa dell’Italia, un’immagine dove la democrazia sia rispettata e dove i diritti di ogni persona, indipendentemente dalle origini, siano garantiti”. Già, il Governo… E’ giustissimo, ma forse ha dimenticato che anche lei è “il Governo”. Altrettanto sconcertante il ministro dell’interno Angelino Alfano il quale – secondo la collega Lorenzin – avrebbe accolto la notizia con un grande moto di indignazione: “Ero in Consiglio dei ministri e ho visto le immagini con Alfano – ha raccontato la titolare della Sanità – Lui è sobbalzato sulla sedia e si è attivato per capire chi fosse il responsabile”. Questa “attivazione” seguita al sobbalzo sulla sedia è stata la richiesta di una relazione sull'accaduto da far arrivare entro 24 ore sulla sua scrivania, con l’aggiunta di un perentorio: “Chi ha sbagliato pagherà”. Poi, 48 ore dopo, è stato revocato l’incarico alla cooperativa che gestiva il centro, ma va da sé che questo “licenziamento” è il minimo che si potesse fare: il problema è molto più vasto.
“Chi ha sbagliato pagherà”. Il tono generale delle reazioni è stato questo: individuare i responsabili. Ma al di là delle responsabilità penali individuali, che dovranno essere accertate dall'inchiesta aperta dalla magistratura di Agrigento, se ci sono colpe quanto meno morali e oggettive, in questa tristissima, umiliante vicenda, vanno ricercate in massima parte nella politica e nel Governo. Anzi, nei governi degli ultimi anni. Perché è noto a tutti ed è stato denunciato infinite volte da una miriade di operatori e associazioni umanitarie, quello che accade in Italia nei Centri di accoglienza per i richiedenti asilo (Cara), nei Centri di prima assistenza (Cpa) e nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Ma il Governo e la politica non hanno mai fatto nulla per eliminare questo scandalo. Né oggi, né prima. Silenzio assoluto. Anzi, ai tempi del ministro leghista Roberto Maroni agli interni, si è anche adottata una tecnica di “silenziamento” generale, vietando ai giornalisti l’accesso a questi centri. In particolare ai Cie, dove la situazione è più disastrosa: carceri in cui si viene rinchiusi per mesi senza aver commesso alcun reato e senza processo.
Alfano ha chiesto l’ennesima relazione. Ma – a parte che, essendo più volte andato a Lampedusa, dovrebbe conoscere perfettamente, di persona, la condizione sconvolgente del centro di accoglienza dell’isola – di relazioni di questo genere la sua scrivania è piena, addirittura ingombra: gliele hanno mandate a decine i suoi stessi prefetti e ispettori, oltre che organizzazioni come Amnesty, Medici per i diritti umani, Habeshia, da sempre in prima fila per l’assistenza e la difesa dei rifugiati e dei migranti. Evidentemente, come è avvenuta “a sua insaputa” la vergognosa, illegittima espulsione lampo dall’Italia di Alba Shalabayeva, consegnata insieme alla figlioletta di appena 6 anni al dittatore kazako Nurisultan Nazarbaiyev, anche questi rapporti sono arrivati allo stesso modo: “a sua insaputa”. Eppure si tratta di rapporti di fuoco, che evidenziano una situazione indegna.
L’ultimo caso precede di appena due giorni lo scandalo documentato dal video di Lampedusa. Riguarda il Cara di Mineo, nel Catanese, dove un ragazzo eritreo, Mulue Ghirmay, si è impiccato a 21 anni, stroncato da otto mesi consumati nella vana attesa di essere ascoltato dalla commissione territoriale, alla quale aveva inoltrato la richiesta di asilo. Otto mesi d’inferno e con davanti nessuna prospettiva di futuro. Otto mesi trascorsi come in prigione, in una struttura invivibile, attrezzata per un massimo di 1.200 posti ma dove, in un clima di prepotenze e abusi, vivono attualmente oltre 4 mila disperati, provenienti da ben 54 paesi diversi: “non persone” senza diritti, condannate per lo più a diventare sbandati “invisibili”, senza lavoro e senza casa, anche quando la loro domanda di protezione internazionale viene accolta. “Mulue Ghirmay – ha scritto don Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia – non ha trovato la morte nella difficile marcia attraverso il deserto in mezzo a mille pericoli, non l’ha trovata nel girone infernale della Libia o nella drammatica traversata del Mediterraneo. L’ha trovata in quell’Italia alla quale aveva chiesto aiuto e amicizia”.
La rabbia dei suoi compagni di sventura finiti a Mineo è esplosa in un’altra delle tante sommosse che hanno costellato in questi anni la vita del centro di accoglienza. E Mulue non è la sola vittima registrata in questa struttura del Catanese. Secondo le ripetute denunce di Habeshia, ci sarebbero stati almeno altri quattro morti per i disagi e le scarse cure mediche. L’ultimo, nel gennaio scorso, è una ragazza eritrea di 28 anni, incinta di 4 mesi, sofferente di aneurisma all’aorta eppure fatta rimanere nel caos del Cara. Prima di lei, per varie patologie, un giovane pakistano, un maliano e un ghaniano. Da sempre, del resto, la Ong Medici per i diritti umani denuncia che, in tutti i centri che ospitano profughi e migranti, l’assistenza sanitaria è del tutto inadeguata, spesso solo teorica. Ma questi appelli sono rimasti inascoltati. Così come le richieste di dotare le strutture anche di un ambulatorio di psicologi, per occuparsi almeno dei casi più vulnerabili, dei “malati dentro”.
L’elenco delle sofferenze è lunghissimo, scandito anche da proteste e rivolte. Pochi mesi fa, ad esempio, al Cara di Caltanisetta i profughi che avevano ottenuto dalla commissione territoriale lo status di rifugiato o un’altra forma di protezione, anziché essere accompagnati verso un percorso di inserimento sociale, sono stati allontanati dalla struttura senza neppure ricevere tutti i documenti, salvo l’impegno di completare l’iter entro 40 giorni. Ovvero, gettati per strada privi di tutto, persino delle “carte burocratiche” complete: nessuno si è preoccupato di come avrebbero potuto mangiare, trovare un alloggio qualsiasi, sopravvivere. Uomini trasformati in merce a perdere, esposti ad ogni pericolo e ad ogni forma di sfruttamento e ricatto. Il vuoto. Lo stesso vuoto che, uscendo dal campo di Crotone Sant’Anna, ha trovato nel marzo del 2012 un profugo eritreo di 32 anni. Un vuoto enorme, fatto di emarginazione, nessuna possibilità di lavoro, niente casa. Un buco incolmabile che lo ha ucciso: anche lui è stato trovato impiccato, nel rifugio di fortuna che si era ricavato in un rudere, ad Isola Capo Rizzuto.
Non a caso proprio in queste ore è scoppiata una sommossa tra gli eritrei trasferiti da Lampedusa al centro di prima assistenza di Cagliari, ottanta circa tra uomini e donne, di cui 5 in stato di gravidanza: chiedono di non essere costretti ad essere registrati e a rilasciare le proprie impronte digitali, per non dover poi restare in Italia, abbandonati da quello Stato che in teoria li ha accolti come profughi ma che in realtà si limita a schedarli, lasciandoli poi al proprio destino. “Una decina di loro – racconta don Zerai – ha anche tentato la fuga, gettandosi in mare: due hanno rischiato di annegare e sono stati salvati, degli altri otto si è persa ogni traccia. Si pensa, si spera, che abbiano raggiunto a nuoto qualche anfratto della costa dove approdare”. Tutti quelli rimasti al Cpa hanno iniziato lo sciopero della fame. Vogliono che venga revocato o non applicato il trattato di Dublino che, se richiedono asilo in Italia, impedisce loro di cercare rifugio in altri stati europei, dove spesso vivono familiari ed amici. Ricordano che Mulue Ghirmay si è suicidato a Mineo proprio per questo: voleva raggiungere una delle sorelle, in Svizzera o in Norvegia, ma ha trovato di fronte a sé barriere invalicabili. Contestano, inoltre, la sistemazione in una struttura allestita come una caserma o un carcere. “Perché – urla un portavoce del gruppo – siamo finiti in questa specie di prigione? Che cosa abbiamo fatto? Dopo tutto quello che abbiamo sofferto nel deserto, in Libia e in mare, ora ci rinchiudete in una base militare. Qual è la nostra colpa, forse quella di aver cercato la libertà?...”.

E tutto questo calvario nei “centri” italiani è ancora il meno. Nei 23 campi di detenzione libici, che solo la visione assurda del governo italiano può far finta di ritenere centri di accoglienza, le cose vanno anche peggio. Molto peggio. Profughi e migranti sono in balia del personale di guardia, costituito quasi sempre da miliziani: fame, sete, violenze, maltrattamenti, lavoro obbligatorio, stupri, torture, ricatti sono la norma quotidiana. E’ l’Italia che indirettamente consegna di fatto a questi lager migliaia di disperati, grazie al trattato bilaterale tra i due governi, che affida a Tripoli il compito di “gendarme del Mediterraneo” contro l’emigrazione. I parlamentari e i ministri che ora profondono lacrime e indignazione per la vicenda di Lampedusa, non possono non saperlo. Ma non ne parlano. Incluso il premier Enrico Letta, che il 4 luglio scorso ha siglato il terzo accordo con la Libia, dopo quello del 2009 voluto da Berlusconi con Gheddafi e quello del 2012, firmato da Monti e da Annamaria Cancellieri, allora ministro degli interni, con la coalizione rivoluzionaria. E’ un silenzio assordante, che tradisce mille ipocrisie.  

mercoledì 18 dicembre 2013

Ma di cosa si scandalizzano ?

 
Non riusciamo a capire di cosa si scandalizzano in queste ore politici, associazioni umanitarie e opinionisti di turno. Le immagini che abbiamo visto sulle condizioni del centro di Lampedusa e del trattamento riservato ai migranti sembrano raccontare una realtà sconosciuta, una realtà nuova, una realtà particolare, mentre molti sanno, specie chi si occupa di immigrazione che è la normalità e che c'è molto di peggio in tutta Italia e da tempo. Il ministro dichiara che chi ha sbagliato deve pagare, allora siamo messi bene, perche in questo paese di conti in sospeso ce ne sono troppi e di solito chi doveva pagare ricopre alte cariche di governo o posizioni strategiche. Il centro di Lampedusa come tutti i centri per migranti andrebbero distrutti perche sono come dei lager, invece di operarci come fanno molte ONG che sanno quello che accade dentro e continuano in silenzio nel loro lavoro. Non si può tollerare che esistano ancora i centri per migranti, cosi come non si può tollerare ancora una impostazione generale sulle migrazioni che tratta gli esseri viventi come merce o schiavi. I centri non devono più esistere, in nessuna forma e vanno abbattuti con tutti i mezzi.
servizio del dicembre 2012 di Libera Espressione
Bisogna regolarizzare i viaggi delle donne e degli uomini che si spostano per motivi di lavoro o turismo che arrivano in Italia con un visto, ormai è noto che la maggior parte dei migranti irregolari sono coloro a cui scade un visto di turismo o lavoro, una volta scaduto, nessuno applica le procedure per il rientro nel paese di origine o proroga il visto per una ricerca lavoro o per altri motivi e cosi migliaia di persone si ritrovano senza documenti con le conseguenze che tutti possiamo immaginare. Per questo a chi chiediamo il conto ?
La gente che arriva a Lampedusa non arriverebbe più qui, se le procedure di rischiesta di asilo fossero avviate nei paesi di provenienza (Quando è possibile) o in quelli di transito, la gente che arriva qui scappa da guerre, in cui spesso è coinvolta l'Europa e la NATO, queste persone andrebbero prese direttamente in Libia con navi e altri mezzi e portate in Europa, cosi queste organizzazioni criminali di cui si parla, non avrebbero più merce umana da trattare, ma come si sa dopo la guerra criminale della NATO contro la Libia e la destabilizzazione totale del paese, l'Italia firma accordi per rimpatri e controlli con fantomatici governi libici invece di attuare sistemi nuovi per l'asilo. Di questo chi è che dovrebbe pagare e delle armi che vendiamo in giro per il mondo ? Per quelle già c'è chi paga e pure profumatamente.
servizio del luglio 2013 di Libera Espressione.
Queste persone arrivano dopo aver sborsato molti soldi e con altri soldi in tasca che gli permetterebbero di sopravvivere durante il periodo per le procedure dell'asilo politico, che vanno velocizzate, si dovrebbero potenziare e stimolare esperienze come quelle di Riace e di altri comuni della Locride che praticano un accoglienza diffusa in case e che attua dei programmi di inserimento nel mondo del lavoro, con tante difficoltà ma con risultati enormi.
Vogliamo parlare degli ultimi superstiti del naufragio del 3 ottobre ? Una trentina di ragazzi eritrei rimasti a Lampedusa tantissime settimane e dopo lasciati davanti al CARA di Mineo allo sbaraglio senza documenti, allo sbando totale, ma non ci sono immagini shock su questo, chissà chi deve pagare per questo, e per i naufragi di ottobre ? Chi deve pagare, qualche scafista tunisino forse.
Due video di Libera Espressione sui naufragi di ottobre:
Noi non ci uniamo al coro di stupore, ne alla caccia al colpevole , perche il colpevole è da tempo che sappiamo chi è: sono i governi, sono i potenti del mondo, non ci uniamo neanche alle richieste di ipotetiche riforme, perche sappiamo che passata questa piccola bufera, una delle tante, tutto tornerà come prima, peggio di prima.
Noi chiediamo a tutte le persone che non vogliono dei lager nel paese in cui vivono di fare azioni concrete e denunciare chi li gestisce, non ci sono buone gestioni dei centri per miganti, non ci possono essere, perche la persona in ogni caso sarà ridotta a merce.
Collettivo Askavusa

martedì 17 dicembre 2013

Bad reception system for refugees in Italy

Mineo . Eritrean refugee victims of the Dublin and bad reception system in Italy
Lampedusa: http://www.youtube.com/watch?v=XL7M3ykTci0


He was 21 years old and had landed in Sicily on April 5 . It was called Mulue Ghirmay , came from Keren , Eritrea . Escaped from a military regime among the hardest and bloodiest in the world. He faced the Sahara , Libya . Embarked risking death in the Mediterranean. It has survived all this. But not Italy. Did not find waiting for death in the desert or in the sea, he found homes for the military in the former American base now become the Darling of Mineo , a lager than an authorized service center for asylum seekers , isolated from everything and all , far from the city. Because, obviously , must be and remain "invisible " hidden from view and , therefore , the attention and intervention of any real help . Almost not even exist. Yet they call it the village of solidarity.
Have not yet been clarified details of the death. The young man was found hanged with a tent. Tragedy on the prosecutor has opened an investigation of Caltagirone . The only definite information about him for now are those provided by the sisters , who live in Northern Europe. As for the reasons which led the young man to take his own life , is suspected to have been instrumental in the fact that he had to " register" his fingerprints that he felt , in short, " filed " and now unable to reach the family who preceded him in the escape from Eritrea . It ' a suspicion that serious accusations against Italy , which has assumed responsibility for his case of " asylum seeker " , but then forced him to remain in Mineo for 8 months, standard living conditions and without an outlook for the future. Practically abandoned to itself , Mulue saw only darkness in her tomorrow , because for refugees like him the "Italian system" , after months , sometimes more than a year of isolation , it gives you a piece of paper called a residence permit, you accompanies the station caricandoti on a train without a euro in his pocket, and then tells you : ' Go where you want ' . So the "practice" is closed but, in fact , you were destined to be delivered to a homeless street. Here , in all likelihood , what tormented this guy. A steal his future was Italy . That future that he hoped to live with her sisters in Northern Europe. He could have chosen between Switzerland and Norway , the two European countries where his family emigrated and instead tragically ended his life in Mineo , after waiting for 8 months of being called by the territorial commission to investigate your request asylum , for more with the fear of getting , as one result , that of being abandoned at the station of Catania.
That's what killed Mulue : the absolute uncertainty of the future and wait times so long , spent in a crowded place for more than 4000 people from 54 different countries , in a climate of tension daily high and daily struggle to survive , guarded by the military as a criminal. This told her sisters : the life unlivable in the center , the humiliating conditions , the wait exhausting for an end result that loomed disappointing. And this probably defeated him : after overcoming enormous dangers , since the escape from dictatorship to crossing the Mediterranean , led by a great dream of freedom, rights and dignity, he found himself a prisoner of an absurd system that has turned off, killed his dream . Without that dream Mulue did not want to live , so he chose to rebel with the only weapon he had left : his own life. To rise up and put on trial those who wanted to decide in his place, who wanted to throw in one of the many dilapidated buildings where they live thousands of Eritrean refugees like him, " condemned " by the Italian political system and the Europe Agreements as the " Dublin III" in become invisible , blackmailed , "non-persons " without rights, labor to exploit. The painful choice of Mulue is an escape from this system unworthy forcing thousands of refugees to live in inhumane conditions in the " Civil Italy " , not in the third world : in Italy , was a member of the European Union and the G7 yet unable to acquire a comprehensive law on asylum, a national system capable of ensuring a dignified reception , through projects of social inclusion, economic and cultural life of the refugees welcomed on paper, but then left to fend for themselves.
I already know that the judiciary will close the case as a suicide Mulue motivations unclear . But I remain convinced that the real reason is all too clear : this guy is the victim of a reception system incapable of respecting the dignity of the person and offer a future that is not to be thrown on the street , such as waste and, together, is a victim of European agreements that prevented him from going to live by his sisters , where he could be supported and accompanied them to start living again , after the ordeal of the flight and exile.
The death of this 21 year old guy that I hope at least make people think the "powerful " who have decision-making power by the government to those who have responsibility for the management of the centers as one of Mineo : I hope you finally understand that they are dealing with the human beings, that they are people , not numbers, in which each "file" there is a man or a woman , who had come to seek protection , freedom, rights and dignity and not to be exploited or turned into beggars sentenced to depend on the tables of authorities " benefactors " . We need to change , to humanize these centers. If the capacity is 1,200 inconceivable lay up a number of guests even three times higher . Already this overcrowding by itself make your life a living hell. The services offered to 1,200 can not meet the needs of 4000 : it is obvious that they are born tension and discomfort. The only good thing done by the Bossi-Fini law is that it has introduced the 7 territorial commissions for asylum applications , but it seems that today we are operating only 4 , in addition to the old committee of central Rome . According to the commitments , these organisms would have to answer questions in an acceptable time , without requiring the applicant to the torture of long waiting times and exhausting psychological, family and social . There is , however, an average of 14 months of waiting, the arrival until the final answer. And this expectation , already difficult in itself , becomes unbearable in overcrowded facilities , such as Mineo , for people who have already had to overcome many dangers to get to Italy , where they hoped to find friendship and solidarity and instead found themselves almost in a concentration camp .
Is it any wonder why Italy is not able to respect the rights and dignity of these people. Look this video is clear what happen in Lampedusa http://www.youtube.com/watch?v=XL7M3ykTci0 The answer perhaps lies in the fact that both the legislators that many " professional solidarity " so far have not had the mentality and desire to plan a reception system starting from the needs of the refugees. It takes into account the needs of policy and those of the organizations for assistance. The refugee is the last thought : instead of being at the center of the problem, you have to adapt to what is offered . There are plenty of funds : what is lacking is a clear conscience , which sees in the refugee a person with rights and duties and to whom respect is due . It makes you think the commandment : " Do not do what you do not want to be done , but hopefully you do and what you want others to do to you or for you."
Italy next year is expected to be an important presidency of the European Union. It can be a great opportunity to ask for the renegotiation of Dublin III , because you can not force a man or a woman to seek asylum in a country where you do not want to live . As is the case in Italy , where there are fewer and fewer refugees who wish to stay , because there are conditions for a dignified reception , with a future job , a home, the tools to rebuild their lives. Precisely for this reason it makes sense that Italy continues to take fingerprints and " filing " the refugees who come knocking on his door : it is a practice that only serves to swell the ranks of the poor in the canteens and the mass of desperate people in the cities.
Don Mussie Zerai

lunedì 16 dicembre 2013

Profugo eritreo vittima dell’Accordo di Dublino e del pessimo sistema di accoglienza in Italia

Mineo: Profugo eritreo Morto, vittima dell’Accordo di Dublino e del pessimo sistema di accoglienza in Italia



Aveva 21 anni ed era sbarcato in Sicilia lo scorso 5 aprile. Si chiamava Mulue Ghirmay, veniva da Keren, in Eritrea. Scappava da un regime militare tra i più duri e sanguinari del mondo. Ha affrontato il Sahara, la Libia. Si è imbarcato rischiando la morte nel Mediterraneo. È sopravvissuto a tutto questo. Ma non all’Italia. Non ha trovato ad attenderlo la morte nel deserto o nel mare: l’ha trovata nelle ex case per i militari della base americana diventate oggi il Cara di Mineo, un lager più che un centro assistenza per i richiedenti asilo, isolati da tutto e da tutti, lontani dalla città. Perché, evidentemente, devono essere e restare “ invisibili”: nascosti alla vista e, dunque, all’attenzione e a qualsiasi intervento di aiuto concreto. Quasi neanche esistessero. Eppure lo chiamano villaggio della solidarietà.
Non sono ancora stati chiariti i dettagli del decesso. Il  giovane è stato rinvenuto impiccato con una tenda. Sulla tragedia la Procura di Caltagirone ha aperto un’inchiesta. Le uniche notizie certe sul suo conto per ora sono quelle fornite dalle sorelle, che vivono nel Nord Europa. Quanto alle motivazioni che hanno indotto il giovane a togliersi la vita, si sospetta che sia stato determinante il fatto di aver dovuto “registrare” le sue impronte digitali: che si sentisse, insomma, “schedato” e ormai nell’impossibilità di raggiungere i familiari che lo hanno preceduto nella fuga dall’Eritrea. E’ un sospetto che chiama pesantemente in causa l’Italia, la quale si è assunta le responsabilità del suo caso di “richiedente asilo politico”, ma poi lo ha costretto a restare a Mineo per 8 mesi, in condizioni di vita indegne e privo di una prospettive per il futuro. Praticamente abbandonato a se stesso, Mulue vedeva solo buio nella sua domani, perché per i profughi come lui il “sistema Italia”, dopo mesi, a volte più di un anno di isolamento, ti dà un pezzo di  carta chiamato permesso di soggiorno, ti accompagna alla stazione caricandoti su un treno, senza un euro in tasca, e poi ti dice: ‘Vai dove vuoi’. Così la “pratica” è chiusa ma, di fatto, sei stato destinato ad essere un barbone consegnato alla strada. Ecco, con ogni probabilità, che cosa tormentava questo ragazzo. A rubargli il futuro è stata l’Italia. Quel futuro che lui sperava di vivere con le sorelle nel Nord Europa. Avrebbe potuto scegliere tra la Svizzera e la Norvegia, i due paesi europei dove è emigrata la sua famiglia e invece ha chiuso tragicamente la sua vita a Mineo, dopo aver atteso per ben 8 mesi di essere chiamato dalla commissione territoriale incaricata di esaminare la sua richiesta di asilo, per di più col timore di ottenere, come unico risultato, quello di essere abbandonato alla stazione di Catania.
Ecco cosa ha ucciso Mulue: l’assoluta incertezza del futuro e i tempi di attesa così lunghi, trascorsi in un luogo affollato da più di 4 mila persone provenienti da 54 nazioni diverse, in  un clima quotidiano di tensione altissima e ogni giorno in lotta per sopravvivere, guardato a vista da militari come un criminale. Questo raccontava alle sue sorelle: la vita invivibile nel centro, le condizioni umilianti, l’attesa logorante per un risultato finale che si profilava deludente. E questo probabilmente lo ha sconfitto: dopo aver superato pericoli enormi, dal momento della fuga dalla dittatura fino alla traversata nel Mediterraneo, guidato da un grande sogno di libertà, diritti e dignità, si è ritrovato prigioniero di un sistema assurdo che ha spento, ucciso quel suo sogno. Senza quel sogno Mulue non se la sentiva di vivere, così ha scelto di ribellarsi con l’unica arma che gli era rimasta: la sua stessa vita. Di ribellarsi e porre sotto accusa chi voleva decidere al posto suo, chi lo voleva gettare in uno dei tanti palazzi fatiscenti dove vivono migliaia di profughi eritrei come lui, “condannati” dal sistema politico italiano e da accordi europei come il “Dublino III” a diventare invisibili, ricattabili, “non persone” senza diritti, forza lavoro da sfruttare. La scelta dolorosa di Mulue è una fuga da questa sistema indegno che costringe migliaia di profughi a vivere in condizione disumane nella “civile Italia”, non nel terzo mondo: in Italia, stato membro dell’Unione Europea e del G7 eppure incapace di dotarsi di una legge organica sul diritto di asilo, di un sistema nazionale capace di garantire un’accoglienza dignitosa, attraverso progetti di inclusione sociale, economica e culturale dei profughi, accolti sulla carta, ma poi abbandonati a se stessi.
So già che la magistratura chiuderà il caso di Mulue come un suicidio dalle motivazioni non chiare. Ma io resto convinto che il motivo vero sia fin troppo chiaro: questo ragazzo è vittima di un sistema di accoglienza incapace di rispettare la dignità della persona e di offrire un futuro che non sia quello di essere gettati per strada, come un rifiuto; e, insieme, è vittima degli accordi europei che gli ha impedito di andare a vivere dalle sue sorelle, dove poteva essere supportato e accompagnato da loro per ricominciare a vivere, dopo le traversie della fuga e dell’esilio.
La morte di questo ragazzo di 21 anni spero almeno che faccia riflettere i “potenti” che hanno il potere decisionale, dal governo fino a chi ha responsabilità di gestione dei centri come quello di Mineo: spero che comprendano finalmente che hanno a che fare con degli esseri umani, che si tratta di persone e non di numeri, che dentro ogni “fascicolo” c’è un uomo o una donna, venuti a cercare protezione, libertà, diritti e dignità e non certo per essere sfruttati o trasformati in mendicanti condannati a dipendere dalle mense di enti “benefattori”.  Bisogna cambiare, umanizzare questi centri di accoglienza. Se la capienza è di 1.200 è inconcepibile ammassarvi un numero addirittura tre volte superiore di ospiti. Già questo sovraffollamento rende di per sé la vita un inferno. I servizi predisposti per 1.200 non possono rispondere alle esigenze di 4 mila: è ovvio che ne nascano tensioni e disagi. L’unica cosa positiva fatta dalla legge Bossi-Fini è quella di aver introdotto le 7 commissioni territoriali per le richieste di asilo, ma pare che oggi ne siano operative soltanto 4, oltre alla vecchia commissione centrale di Roma. Secondo gli impegni, questi organismi avrebbero dovuto rispondere alle domande in tempi accettabili, senza costringere il richiedente alla tortura di tempi di attesa lunghi e logoranti sul piano psicologico, famigliare e sociale. Si registra, invece, una media di 14 mesi di attesa, dall’arrivo fino alla risposta finale. E questa attesa, già di per sé difficile, si fa insopportabile in strutture sovraffollate, come quella di Mineo, per persone che hanno già dovuto superare tanti pericoli per arrivare in Italia, dove speravano di trovare amicizia e solidarietà e si sono ritrovati invece quasi in un lager.
C’è da chiedersi come mai l’Italia non sia in grado  di rispettare i diritti e la dignità di queste persone. La risposta forse va ricercata nel fatto che sia i legislatori che molti “professionisti della solidarietà” finora non hanno avuto la mentalità e la volontà di progettare un sistema di accoglienza partendo dal bisogno dei rifugiati. Si è tenuto conto dei bisogni della politica e di quelli delle organizzazioni di assistenza. Il rifugiato è l’ultimo pensiero: anziché essere al centro del problema, si deve adattare al quello che viene offerto.  Non mancano i fondi: quello che manca è una coscienza retta, che veda nel rifugiato una persona con diritti e doveri e alla quale si deve rispetto. Viene da pensare al comandamento: “Non fare quello che a te non vuoi che venga fatto, ma fai e spera quello che tu vuoi che gli altri facciano a te o per te”.
L’Italia il prossimo anno è attesa da un importante turno di presidenza all’Unione Europea. Può, deve essere una grande occasione per chiedere la rinegoziazione dell’accordo Dublino III, perché non si può costringere un uomo o una donna a chiedere asilo in un paese dove non vogliono vivere. Come accade nel caso dell’Italia, dove sono sempre di meno i profughi che desiderano restare, perché non vi trovano le condizioni per una accoglienza dignitosa, con un futuro di lavoro, una casa, gli strumenti per rifarsi una vita. Proprio per questo non ha senso che l’Italia continui a prendere le impronte digitali e a “schedare” i profughi che bussano alla sua porta: è una pratica che serve soltanto ad ingrossare la fila dei poveri nelle mense e la massa di disperati nelle città.

don Mussie Zerai

domenica 15 dicembre 2013

Esplode l’orrore dei profughi schiavi contro l’indifferenza dei “potenti della terra”

 di Emilio Drudi

Ha un volto il dossier sul traffico internazionale di esseri umani presentato giorni fa a Roma, alla Camera. E’ quello di Berham, un diciottenne eritreo, di corporatura smilza e dallo sguardo carico di sofferenza. Una foto lo ritrae a Lampedusa sul sentiero che scende verso la Spiaggia dei Conigli, proprio di fronte a quel tratto di mare dove all’alba del 3 ottobre, ad appena 800 metri dalla riva, è affondato il barcone con a bordo, stipati all’inverosimile, quasi 500 profughi. Lui è uno dei pochi superstiti della sciagura che ha commosso il mondo intero, accendendo per qualche giorno i riflettori sulla tragedia dei rifugiati che a migliaia, ogni anno, sono costretti a lasciare il proprio paese per fuggire da guerre e persecuzioni. Cessata l’emozione e spenti i “riflettori”, però, già oggi, a poco più di due mesi di distanza, il ricordo si è affievolito. Anzi, rischia di essere seppellito del tutto. Come la vita di mille e mille altri Berham, ingoiati dal Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere l’Europa, morti di sete e di stenti nella traversata del deserto verso le sponde del Nord Africa o il confine di Israele nel Sinai, uccisi dalle fucilate delle guardie di cento frontiere, spariti nel girone infernale dei trafficanti di uomini.
Proprio per questo è stato elaborato quel dossier, illustrato prima a Bruxelles, all’Unione Europea, e poi a Roma, tappa di un giro tra varie capitali: Londra, Washington, Tel Aviv, il Cairo, Addis Abeba. Per non dimenticare e per scuotere le coscienze. Per spingere a farsi carico di questa tragedia l’Onu, la Ue, le cancellerie dei più importanti Stati del Nord del mondo. I “potenti della terra”, come li ha chiamati proprio a Lampedusa papa Francesco. Che non a caso per il primo viaggio pastorale del suo pontificato rivoluzionario ha voluto scegliere la piccola isola nel cuore del Mediterraneo, diventata faro di speranza per un numero infinito di fuggiaschi, gli ultimi tra gli ultimi. Non è stato facile mettere insieme quel documento: ci sono voluti anni di ricerche condotte da due professori dell’università di Tilburg, Miriam van Reisen e Conny Rijken, insieme a Meron Estefanos, una giornalista eritrea esule a Stoccolma, e con la collaborazione di organizzazioni umanitarie e operatori che vivono ogni giorno il dramma dei rifugiati, come don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia. Il risultato è esplosivo.
La storia di Berham è emblematica di tutto quanto emerge dall’inchiesta. Il suo calvario è durato tre anni. Ne aveva solo 15 quando ha lasciato l’Eritrea per non essere condannato a trascorrere tutta la vita sotto le armi, al servizio del dittatore Isaias Afewerki. Dopo dodici mesi si è ritrovato schiavo in una delle “case di tortura” dei predoni del Sinai che danno la caccia ai profughi come lui per chiederne il riscatto. Gli hanno gettato plastica fusa sulla pelle nuda, lo hanno tormentato con scariche elettriche e ferri roventi, picchiato sistematicamente. Un trattamento al quale spesso veniva sottoposto mentre era costretto a telefonare ai familiari, perché ne ascoltassero le urla di dolore e si piegassero a pagare 38 mila dollari per liberarlo da quell’inferno. Era in un gruppo di dodici: ne sono sopravvissuti soltanto sei. E, una volta rilasciato, la sua odissea non è finita. Arrivato al Cairo con mezzi di fortuna, è stato arrestato e spedito a sue spese ad Addis Abeba perché, per non essere costretto a rientrare in Eritrea, si è finto etiope. Dall’Etiopia ha poi raggiunto la Libia, dove è finito in mano ai miliziani islamisti, in uno dei famigerati campi di detenzione spacciati per centri di accoglienza, sino a che ha trovato il modo di imbarcarsi clandestinamente sul barcone poi naufragato a Lampedusa. “Con me nel lager dei predoni beduini – ricorda – c’era anche una giovane con un bambino di sei mesi. Sono stati entrambi duramente seviziati più volte. Quando il piccolo aveva due anni, la madre è morta sotto tortura e lui è stato preso da un altro ostaggio che, liberato, lo ha portato con sé a Tel-Aviv. Ora credo che sia in un orfanotrofio in Israele”.
Un altro fuggito da Asmara per non diventare un soldato bambino, costretto poi a restare nell’esercito una vita intera, fino a 55 anni, è Temesgen, un quindicenne tutto pelle e ossa e dagli enormi occhi neri. Quando è stato salvato, sembrava appena uscito da un lager nazista. Per oltre tredici mesi è stato tenuto in schiavitù nel deserto dalla banda che l’ha catturato mentre stava cercando di trovare rifugio in Israele. “I suoi aguzzini – ha raccontato al convegno di Roma Alganesh Fisseha, la presidente della fondazione Ghandi – l’hanno tenuto senza mangiare per quasi 60 giorni. Per ‘punirlo’ e per spingere i parenti a pagare il riscatto richiesto per lasciarlo andare. Quasi due mesi con a malapena un tozzo di pane vecchio e un sorso d’acqua ogni tanto per sopravvivere”.
Berham e Temesgen ora sono liberi. Tantissimi giovani, però, non hanno avuto la loro forza e la stessa fortuna. Secondo quanto hanno riferito Miriam van Reisen e Meron Estefanos, si calcola che tra il 2009 e il 2013 siano finiti nel girone del Sinai da 25 a 30 mila profughi. Di migliaia si è persa ogni traccia. Di alcuni sono stati ritrovati i cadaveri abbandonati nel deserto, corpi mutilati dalle torture: qualcuno, martoriato da profonde incisioni, era anche privo di parte degli organi. Soprattutto i reni. Altri disperati ce l’hanno fatta ad essere rilasciati, ma quasi tutti restano segnati per sempre da questo inferno, nel fisico e nello spirito: più di qualcuno non è riuscito a vincere o anche solo a sopportare il ricordo, l’incubo, dei mesi, spesso degli anni, passati in catene. Ed ha deciso di farla finita.
“I suicidi sono frequenti tra questi ragazzi: molti non riescono più a riconciliarsi con la vita”, conferma don Zerai. Non è facile, del resto, tornare a credere nella vita dopo quel lungo, interminabile tunnel di orrore. Daniel Eyosab Yonathan, un giovane sui vent’anni, ha subito sevizie così pesanti da aver perso l’uso di entrambe le mani. “Le violenze sessuali sono sistematiche, sadiche, accompagnate da torture indicibili e coinvolgono tutti gli ostaggi, uomini, donne, bambini. Spesso provocano la morte”, ha raccontato Meron Estefanos, riferendo testimonianze raccolte tra i superstiti. Molte ragazze restano incinte, ma continuano ad essere umiliate, picchiate, stuprate. “Una giovane donna ha partorito in catene – ha detto Miriam van Reisen – L’hanno torturata anche mentre dava alla luce il suo bambino, senza acqua né alcun tipo di strumento per tagliare il cordone ombelicale”.
Non c’è pietà: i trafficanti sono disposti a tutto pur di piegare la volontà dei loro schiavi. Quasi nessuno resiste. E la “taglia” richiesta è sempre più alta. Dai 6-7 mila dollari a testa del 2009 si è saliti rapidamente ai 40-50 mila di oggi: una esistenza intera di lavoro per una realtà come il corno d’Africa, dove la maggioranza della popolazione ha un reddito di appena due dollari al giorno. Così il giro d’affari è enorme. “Si calcola che in cinque anni il racket abbia incassato qualcosa come 600 milioni di dollari”, si legge nel dossier. Una cifra da capogiro, che alimenta poi il contrabbando di armi per le bande che si contendono la supremazia nella regione, che finanzia il terrorismo, ma che viene anche riciclata in attività economiche “pulite”, come è accaduto con i proventi della pirateria somala. L’organizzazione criminale che tira le fila di questa tragedia, infatti, ha assunto dimensioni internazionali: non a caso i riscatti vengono ormai pagati quasi tutti in Europa, attraverso agenzie di money transfer. E’ una vera e propria mafia, che non tollera resistenze e ribellioni.
Neanche l’eventuale liberazione, come dimostra la storia di Berham, pone fine al dramma. La strada verso Israele si è chiusa da quando è stata innalzata una barriera impenetrabile sul confine del Sinai: una selva di filo spinato e sensori elettronici lunga centinaia di chilometri, per impedire qualsiasi infiltrazione. L’Egitto riserva ai profughi arresti, carcere, processi sommari e rimpatri forzati: chi ha i mezzi per pagarsi il biglietto aereo viene rispedito nel suo paese; chi non li ha, resta in prigione, a tempo indeterminato, finché non si trova qualcuno disposto a coprire le spese del viaggio. Ma per molti, in particolare per gli eritrei, ritornare a casa significa finire in carcere o peggio, come disertori. Allora, chi può punta sulla Libia: direttamente dall’Egitto oppure ripartendo dall’Etiopia e attraversando il Sudan e il Sahara. In Libia, tuttavia, la sorte di questi disperati non è migliore: li aspettano le fucilate dei militari che pattugliano il confine e, una volta varcata fortunosamente la frontiera, lager dove accade di tutto: violenze, maltrattamenti quotidiani, torture, lavori forzati, stupri, ricatti. E dove fame e sete sono la norma, perché spesso viene negata persino l’acqua da bere. Con la complicità indiretta dell’Italia la quale, in base a tre successivi accordi bilaterali, ha affidato proprio alla Libia il ruolo di “gendarme” contro l’immigrazione clandestina attraverso il Mediterraneo, benché Tripoli non abbia mai firmato la convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati e neghi senza remore gli stessi diritti umani più elementari. Chiunque entri nel paese in modo irregolare, in sostanza, è considerato un criminale, non un profugo. Se viene catturato precipita in un vortice dal quale può uscire solo pagando un riscatto ai carcerieri: sono sempre più frequenti le segnalazioni di miliziani e poliziotti corrotti che si prestano a questo mercato crudele, pretendendo forti somme dai prigionieri e, non di rado, indirizzandoli poi al giro di trafficanti che, sempre a caro prezzo, si occupano del trasbordo verso l’Italia su vecchie carrette non più in grado di reggere il mare. Navi a perdere come quella affondata a Lampedusa.
Si tratta di un’emergenza internazionale. Ignorata e sottaciuta. Ecco perché il dossier, questa denuncia forte portata in tutto il mondo. Perché i “potenti della terra” se ne facciano carico, uscendo finalmente dalla loro indifferenza. “La soluzione vera – ha ammonito don Zerai, a nome anche di Miriam van Reisen, Meron Estefanos e Alganesh Fisseha, gli altri tre relatori dell’incontro di Roma – si avrà soltanto rimuovendo le cause che, nei paesi d’origine, spingono migliaia e migliaia di giovani a fuggire. Ma intanto ci sono numerosi interventi che possono essere attuati nell’immediato o a breve e medio termine. Il primo è l’istituzione di ‘corridoi umanitari’ per l’emigrazione dei profughi, in modo da evitare che l’unica via possibile siano i viaggi alla ventura nel deserto e le traversate clandestine del Mediterraneo. Si tratta, in sostanza, di istituire nei paesi di transito o di prima accoglienza un sistema che permetta ai fuggiaschi di presentare la richiesta di protezione internazionale, con l’ausilio del Commissariato Onu, della Ue, delle ambasciate e dei consolati dei vari stati, europei e africani. Inoltre, provvedimenti che consentano ai profughi di inserirsi nelle stesse nazioni dove sono scappati, in Africa, attraverso programmi di lavoro, studio, assistenza. La maggior parte di loro, infatti, non pensa all’Europa. Preferisce restare non lontano dal proprio paese, con la speranza di rientrare prima possibile. A spingere molti a tentare di varcare il Mediterraneo, anche a costo di affidarsi ai trafficanti di uomini, è la mancanza di prospettive: la visione di un futuro fatto solo di anni di attesa senza speranza, nel chiuso dei campi profughi. Con condizioni di vita dignitose sul posto e un filtro adeguato, invece, il flusso verso l’Europa si ridurrebbe ai casi dei perseguitati più a rischio, ai ricongiungimenti familiari, a chi ha bisogno di una protezione particolare, ai malati gravi… Alle situazioni, insomma, che in Africa non possono trovare soluzione”.
Tra i provvedimenti attuabili da subito sono state prospettate iniziative di sostegno, da parte dell’Europa, in favore dei paesi di prima accoglienza dove i profughi sono più numerosi (Etiopia, Sudan, Kenya, Uganda, Libano, Giordania) attraverso progetti di assistenza e istruzione, di piccolo prestito, cooperazione, promozione lavoro. Un esempio positivo viene dall’Etiopia, che si è fatta carico di mille borse di studio per i giovani eritrei presenti nei campi. Italia ed Europa potrebbero favorire e ampliare questo programma e promuoverne di analoghi in altri paesi. Per attuarli servono molte meno risorse di quelle impegnate per i pattugliamenti con navi da guerra del Canale di Sicilia, decisi dopo la tragedia di Lampedusa, con le operazioni Frontex e Mare Nostrum. E i risultati sarebbero certamente migliori.
Più in generale, si tratta di impostare una nuova politica di accoglienza, in Italia e in Europa, più aperta e in grado di inserire nel tessuto sociale richiedenti asilo, profughi e migranti. Il che implica, automaticamente, la revoca di trattati bilaterali come quello Italia-Libia, che finiscono per aggravare, anziché risolvere, la tratta di esseri umani. Accordi internazionali tra più stati, semmai, sono necessari per promuovere indagini di polizia congiunte, con la collaborazione dell’Interpol, contro le mafie che gestiscono la tratta. “Si potrebbe partire – ha detto Meron Estefanos – dalla ‘via dei soldi’ pagati per il riscatto: seguire i canali attraverso cui il denaro si muove può rivelarsi la chiave per individuare i vertici dell’organizzazione. Senza fermarsi agli scafisti e alla manovalanza”.

Un primo risultato il convegno di Roma lo ha ottenuto. Emilio Ciarlo, consigliere politico del viceministro degli esteri, si è impegnato a proporre al Parlamento una commissione d’inchiesta sul traffico internazionale di esseri umani. Può essere un passo importante. Portare il problema direttamente nelle aule della Camera e del Senato significa porlo al centro dell’attenzione del Paese e della stessa Unione Europea. E magari incrinare finalmente il muro che la “fortezza Europa” ha innalzato contro i profughi spingendo la sua “barriera di confine” sempre più a sud, fino alle sponde meridionali del Mediterraneo e addirittura alla frontiera sahariana della Libia.