venerdì 31 ottobre 2014

Appeal to Swiss authorities: Refugees expelled is a tragedy.

(Google Translate)

A young Eritrean was found hanging in a room at the detention center for foreigners in Aarau. He was about to be deported to Italy. It was in Switzerland for the second time. In possession of a residence permit Italian, entered for the first time in the territory of the Helvetic Republic about two years ago and, after checking his documents, in March 2013, had agreed to be sent to Rome. During the month of August, despite the ban on "Enter", he returned to Switzerland. Stopped, identified and brought to the center of Aarau, was waiting for the authorities Aargau formalizzassero his second expulsion. This time I did it to bear the prospect of a return to a country where he did not want to live and where he had found only indifference, hostility, denial of the fact that the rights to the words were recognized with the granting of permission to living room. I do not have it done to the point that he preferred to call it quits for good. He was only 29 years old.

This tragedy is likely to be only the beginning. There are hundreds, thousands of immigrants, mostly Eritreans as this young man, living in fear of being expelled from Switzerland to Italy. For 600 of them have already signed or is in the process of investigating the deportation order. All to Italy, despite the lack of evidence that they are often just arrived from the Italian border. What then, beyond the formal paperwork, a huge injustice in terms of ethics and morality: the delivery of thousands of them in a host, the Italian one, which in fact are left to themselves asylum seekers even when they have obtained State a form of international protection. A system that increasingly condemns these exiles living in a condition to be "invisible" with no rights, no home, no work: arms delivered to the black market and exploitation.

For all that we ask to stop all the procedures and practices in place to expulsion from Switzerland.

Previous to justify this choice is not even legally are missing. Just to mention two in particular that we consider particularly important: one of these days, the other in November 2011.

The first is the firm conviction October 21 of this year by the European Court of Human Rights, in relation to Italy and Greece, to the story of 35 stranded refugees and rejected from the ports of Ancona, Bari and Venice, in 2009, to be delivered to Greece. The Court denied that Italy had carried rejections-expulsion, strictly applying the criteria of the Treaty of Dublin, even though he was well aware of the harsh treatment of refugees and migrants in Greece and the inhumane living conditions at collection facilities for foreigners. Athens, in turn, was condemned precisely because of its "policy" towards immigrants, including the prospect-threat of repatriation in the countries from which the refugees were forced to flee.

Not least the last second, known as the "case" of Dubliners: refugees, that is, victims of the Treaty of Dublin. In 2011 (especially in November), as many as 41 German courts have temporarily suspended all deportations to Italy for asylum seekers who had resorted to the courts. These are some of the major German courts, including in Weimar, Frankfurt, Dresden, Freiburg, Cologne, Darmstadt, Hanover, Gelsekirchen. On the basis of the number of judgments was placed just by Italy in the treatment of asylum seekers. Treatment documented in a dossier assembled "in the field" by two defense lawyers Dubliners, after a journey made in several Italian cities to realize their person of the situation and collect a long series of testimonies, all agree in saying that Rome merely guarantees only formal refugee status or other forms of international protection, because in the reception system almost completely missing programs that can lead to a real process of social inclusion and resettlement.

In both cases, it was felt that went suspended or otherwise not applied rigidly to the Treaty of Dublin, linking refugees to the first Schengen country to which address the request for asylum. It is suspended, that is, the application of the "formal law" because its application would be resolved effectively in an amount injustice. We appeal, then, to draw on this same principle. In the name of fairness, ethics, life of thousands of young people.

                                                                                   Don Mussie Zerai

Appello alle autorità Svizzeri: Profughi espulsi è una tragedia


Un giovane eritreo è stato trovato impiccato in una sala del centro di detenzione per stranieri di Aarau. Era in procinto di essere espulso verso l’Italia. Si trovava in Svizzera per la seconda volta. In possesso di un permesso di soggiorno italiano, era entrato una prima volta nel territorio della Repubblica Elvetica circa due anni fa e, dopo un controllo dei suoi documenti, nel marzo del 2013 aveva accettato di essere inviato a Roma. Nello scorso mese di agosto, nonostante il divieto di “entrata”, è tornato in Svizzera. Fermato, identificato e condotto al centro di Aarau, era in attesa che le autorità argoviesi formalizzassero la sua seconda espulsione. Questa volta non ce l’ha fatta a sopportare la prospettiva di un rinvio in un paese dove non voleva vivere e nel quale aveva trovato solo indifferenza, ostilità, negazione di fatto dei diritti che a parole gli erano stati riconosciuti con il rilascio del permesso di soggiorno. Non ce l’ha fatta al punto che ha preferito farla finita per sempre. Aveva solo 29 anni.

Questa tragedia rischia di essere soltanto all’inizio. Ci sono centinaia, migliaia di immigrati, in gran parte eritrei come quel giovane, che vivono nel terrore di essere scacciati dalla Svizzera verso l’Italia. Per 600 di loro è già stato firmato o è in corso di istruttoria il decreto di espulsione. Tutti verso l’Italia, nonostante manchino spesso prove certe che siano arrivati proprio dal confine italiano. Si profila così, al di là degli atti formali, una enorme ingiustizia sotto il profilo etico-morale: la consegna di migliaia di disperati a un sistema di accoglienza, quello italiano, che di fatto abbandona a se stessi i richiedenti asilo anche quando abbiano ottenuto dallo Stato una forma di protezione internazionale. Un sistema che sempre più spesso condanna questi esuli a vivere in una condizione da “invisibili” senza diritti, senza casa, senza lavoro: braccia consegnate al lavoro nero e allo sfruttamento.

Per tutto questo chiediamo di sospendere tutti i procedimenti e le pratiche di espulsione in atto dalla Svizzera.

Precedenti per giustificare anche legalmente questa scelta non ne mancano. Ne citiamo due in particolare che riteniamo particolarmente significativi: uno di questi giorni, l’altro del novembre 2011.

Il primo è la condanna decisa il 21 ottobre di quest’anno da parte della Corte Europea per i diritti umani, nei confronti dell’Italia e della Grecia, per la vicenda di 35 profughi bloccati e respinti dai porti di Ancona, Venezia e Bari, nel 2009, per essere consegnati alla Grecia. La Corte ha contestato all’Italia di aver proceduto ai respingimenti-espulsione, applicando rigidamente i criteri del trattato di Dublino, nonostante fosse perfettamente a conoscenza del duro trattamento riservato in Grecia a profughi e migranti e delle inumane condizioni di vita nei centri di raccolta per stranieri. Atene, a sua volta, è stata condannata appunto per la sua “politica” nei confronti degli immigrati, inclusa la prospettiva-minaccia di rimpatrio nei paesi dai quali i profughi sono stati costretti a scappare.

Non meno importante il secondo precedente, noto come “caso” dei dubliners: dei rifugiati, cioè, vittime del trattato di Dublino. Nel 2011 (in particolare nel mese di novembre), ben 41 Tribunali tedeschi hanno sospeso temporaneamente tutte le espulsioni verso l’Italia dei richiedenti asilo che avevano fatto ricorso alla magistratura. Si tratta di alcuni dei principali tribunali tedeschi, tra cui Weimar, Francoforte, Dresda, Friburgo, Colonia, Darmstadt, Hannover, Gelsekirchen. Alla base delle varie sentenze fu posto proprio il trattamento riservato dall’Italia ai richiedenti asilo. Trattamento documentato in un dossier costruito “sul campo” da parte di due avvocati difensori dei dubliners, dopo un viaggio fatto in varie città italiane proprio per rendersi conto di persona della situazione e raccogliere una lunga serie di testimonianze, tutte concordi nell’asserire che Roma si limita ad assicurare solo formalmente lo status di rifugiato o altre forme di tutela internazionale, perché nel sistema di accoglienza mancano quasi totalmente programmi in grado di condurre a un reale processo di inclusione sociale e di re insediamento.

Nell’uno e nell’altro caso si è ritenuto che andasse sospeso o comunque non applicato rigidamente il trattato di Dublino, che lega i rifugiati al primo paese Schengen al quale rivolgono la richiesta di asilo. Si è sospesa, cioè, l’applicazione della “legge formale” perché la sua applicazione si sarebbe risolta di fatto in una somma ingiustizia. Facciamo appello, allora, ad ispirarsi a questo stesso principio. In nome dell’equità, dell’etica, della vita stessa di migliaia di giovani.



                                                                                  don Mussie Zerai

mercoledì 22 ottobre 2014

Profughi: braccia per il lavoro nero ! Cosa fa lo Stato?


di Emilio Drudi

Uno sportello per l’assistenza e l’integrazione dei migranti indiani, con l’obiettivo di aiutare i braccianti sfruttati a denunciare i caporali e le aziende che sfruttano la loro fatica. Poi, la promessa di varare una legge regionale contro il caporalato e di assicurare controlli più capillari e frequenti degli ispettori del lavoro. E’ il progetto “Bella Farnia”, proposto dall’associazione In Migrazione e dalla Cgil e aperto dalla Regione sulla scia dell’inchiesta, condotta sempre da In Migrazione e dalla Cgil, che ha portato alla luce condizioni di vera e propria schiavitù per molti lavoratori, per la maggior parte sikh emigrati dal Punjab. Se ne è parlato in un convegno all’Istituto per l’agricoltura di Latina. Un convegno “folto”: c’erano rappresentanze e ospiti ai massimi livelli delle istituzioni e del mondo del lavoro: Regione, Provincia, vari comuni, Prefettura, forze di polizia, sindacato, associazioni imprenditoriali, Curia vescovile. Nei vari interventi si sono sottolineati spesso concetti come legalità, diritti, integrazione, dignità della persona e del lavoro, inclusione sociale. A questo, infatti, punta il “progetto anti schiavitù” che ha preso il via a Bella Farnia, nel cuore dell’Agro Pontino, e promette di diventare un modello anche per altre realtà.
Si tratta, senza dubbio, di un grande risultato. Eppure… Eppure si ha la sensazione che nel convegno, nel confronto cioè tra le massime istituzioni regionali e locali, si sia discussa solo “l’ultima mezz’ora” del problema. Il punto è che mentre si vara finalmente un progetto credibile contro lo sfruttamento e il lavoro nero, giorno dopo giorno, in questo Paese, in Italia, si continua a costruire un serbatoio enorme proprio di sfruttamento e lavoro nero. E a costruirlo è lo Stato stesso con le sue leggi. A cominciare dal sistema di accoglienza per profughi e migranti.
Secondo l’ultimo rapporto del Commissariato Onu (Unhcr) ci sono oggi 53 milioni di profughi nel mondo: non “migranti economici” ma uomini e donne costretti a fuggire dal proprio paese per salvarsi da guerre, dittature, uccisioni mirate, persecuzioni, galera. Una fuga per la vita. C’è chi parla, ormai, di “catastrofe umanitaria” e il fenomeno è appena all’inizio: continua a crescere. Basta seguire la progressione dei numeri per rendersene conto: i profughi censiti dall’Unhr erano 50 milioni a fine 2013, sono saliti a 51 all’inizio di marzo, ora sono 53. E una larga percentuale gravita sul quadrante del Mediterraneo, una moltitudine di persone costrette a scappare dal Medio Oriente e dall’Africa. Solo dalla Siria ne sono fuggite più di tre milioni, senza contare i 4 milioni di sfollati all’interno del paese, molti dei quali saranno spinti prima o poi a varcare la frontiera dalla guerra di tutti contro tutti che si trascina irrisolta da anni. E dalla dittatura eritrea si calcola che fuggano non meno di 4/5 mila persone al mese.
Oltre il 90 per cento di questi disperati si ferma nei paesi limitrofi al proprio. Ma per chi punta verso l’Europa, la nostra penisola è uno dei principali terminali, magari con l’intento poi di proseguire verso un’altra nazione Ue. Dall’inizio dell’anno a oggi, ne sono arrivati quasi 150 mila. Per l’esattezza, secondo i dati della direzione della polizia di frontiera, 149.698. L’Italia ha aperto loro le porte: li accoglie e spesso va a soccorrerli in mezzo al Mediterraneo, portandoli al sicuro nei porti siciliani, con le navi dell’operazione Mare Nostrum. Poi basta, però. Una volta sbarcati, quella stessa Italia che è andata a salvarli si dimentica totalmente di loro. Appena arrivati, vengono presi e rinchiusi in un centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), in attesa che le loro domande di protezione internazionale siano esaminate. Un’attesa che dura a volte più di un anno. Mesi e mesi di confino in strutture invivibili, isolate come ghetti. Dove spesso persino l’assistenza sanitaria per i malati è insufficiente e precaria, come denuncia con forza il gruppo Medici per i diritti umani. E dove i suicidi per disperazione sono frequenti.
Ma il dopo, quando finalmente si ottiene una forma di tutela (status di rifugiato, asilo politico, protezione per motivi umanitari, ecc.), forse va anche peggio. Dai Cara i rifugiati escono con in mano il permesso di soggiorno e magari un biglietto del treno, ma tutto finisce lì: nessuno si prende più cura di loro. Arrivano a Roma, Milano, Napoli, nelle grandi città, e usciti dalla stazione non sanno a chi rivolgersi, dove andare, dove e come trovare lavoro, un tetto, un letto per passare la notte. Nulla di nulla. Invisibili senza diritti, destinati ad affollare ancora di più i palazzi occupati abusivamente o le baraccopoli dove già vivono migliaia di “fantasmi” come loro. Non persone consegnate, regalate al lavoro nero, allo sfruttamento, talvolta alla criminalità. Disperati “scaricati” dallo Stato che li ha accolti ma della cui sorte non si preoccupa, una volta esaurita la “pratica” del permesso. Con queste migliaia di uomini e donne si trovano così a dover fare i conti – di fatto, senza un programma coordinato, senza direttive chiare, senza risorse – le Regioni, le Prefetture, le Province, i Comuni. I soliti Comuni che sono lo Stato “in prima linea”, quello che è immerso tutti i giorni nella realtà dei problemi.
E’ strano. Da una parte lo Stato, con le sue stesse leggi, “consegna” allo sfruttamento una marea montante di uomini e donne disperati e dall’altra cerca di creare un argine alla marea che ha lui stesso scatenato. Ma la marea è così grande che non c’è argine che tenga, a valle, se non si risolve prima il problema a monte. Se non si riforma radicalmente, cioè, il sistema di accoglienza che questo Paese si è dato, giudicato il peggiore d’Europa, insieme a quello greco. Appare assurdo, allora, che Regioni, Prefetture, Province, Comuni non si mobilitino per chiedere allo Stato “centrale” di mettere fine alla fatica di Schiavo alla quale sono condannati. Per chiedere, cioè, un nuovo programma di accoglienza adeguato alla “catastrofe umanitaria” che preme alle porte dell’Europa. Meglio ancora se un programma unico, condiviso tra tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, che garantisca ai rifugiati una permanenza dignitosa, libertà di residenza e di circolazione. E, magari, con una ripartizione più equa dell’ospitalità: secondo l’ultimo rapporto dell’Onu, in Italia c’è un solo rifugiato (1,2 per l’esattezza) ogni mille abitanti contro i 9 della Svezia, i 7 dell’Olanda, i 6 della Germania, i 4/5 della Francia.

Il convegno di Latina ha invocato diritti e legalità per i lavoratori migranti, perché possano davvero sentirsi liberi e affrontare la vita con dignità. Il progetto “Bella Farnia” va in questa direzione. E’ un passo importante ma, appunto, solo un passo. La battaglia da combattere è più vasta e comincia dal sistema a monte. La impone, prima ancora che le convenzioni internazionali che l’Italia ha sottoscritto,  la nostra stessa Costituzione, che all’articolo 10, terzo comma, dice testualmente: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Non c’è diritto d’asilo senza libertà, dignità, legalità, sicurezza. E non rispetta certamente il diritto d’asilo un sistema che scarica migliaia di profughi in un serbatoio enorme di sfruttamento e lavoro nero.

martedì 21 ottobre 2014

Europa: "Non chiudersi a riccio"

Padre Mussie Zerai in visita al Parlamento europeo in settembre(Facebook)

"Non chiudersi a riccio"

Padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo, da tre anni aiuta in Svizzera i migranti scampati ai naufragi

Fra i migranti che chiedono asilo in Svizzera, la maggioranza è eritrea. Una tendenza che non è cambiata, malgrado le varie revisioni della legge sull'asilo. E proprio dall'Eritrea proviene quello che per molti è "l'angelo custode" della diaspora africana. Padre Mussie Zerai aiuta i migranti che si trovano in difficoltà nel Mediterraneo.
Dopo 20 anni passati in Italia a collaborare con la guardia costiera, dal 2011 è in Svizzera per aiutare la comunità eritrea ed etiope. Il religioso eritreo resta la persona di riferimento per tutti i migranti, che si passano il suo numero di telefono, lo scrivono sui vestiti, sui barconi e nelle celle delle prigioni libiche. Ma è anche il numero da chiamare in caso d’emergenza, se il gommone o l’imbarcazione usata per arrivare in Italia è in difficoltà. Padre Zerai prende nota delle coordinate e le comunica alle autorità per accelerare i soccorsi.
In Svizzera il sacerdote vive da tre anni, dove ha potuto notare che dopo l’iniziale accoglienza, soprattutto ai giovani migranti scampati ai naufragi, si offre un corso di lingua, anche se a suo avviso servirebbe di più un corso di formazione professionale che consenta loro di entrare nel mondo del lavoro. Padre Zerai è ovviamente conscio che in Svizzera, come ovunque in Europa, ci si sta chiudendo nelle proprie frontiere, ma “lasciar fuori chi bussa per chiedere aiuto è un atteggiamento che genera gravi conseguenze”, ha rimarcato il religioso.
http://www.rsi.ch/news/ticino-e-grigioni-e-insubria/Non-chiudersi-a-riccio-2774092.html

Italia, Sudan, Eritrea: un’apertura piena di strani silenzi


di Emilio Drudi

“Processo di Khartoum”: così il viceministro degli esteri Lapo Pistelli, tornando dal Sudan il 16 ottobre, ha definito le intese e i programmi concordati con gli Stati del Corno d’Africa. Al centro dei colloqui – ha specificato – sono state poste le questioni migratorie, con riferimento particolare al traffico di esseri umani nel Mediterraneo e il contrasto dell’emigrazione irregolare. In più, la prosecuzione del dialogo e dei rapporti di collaborazione inaugurati con la visita che lo stesso Pistelli ha fatto a tutti i paesi della regione nel mese di luglio. Il progetto verrà specificato ulteriormente nell’incontro tra Unione Europea e governi africani previsto a Roma per il 28 novembre prossimo.
Il ministero degli esteri – ovvero il governo Renzi – continua a sostenere, dunque, la linea di apertura inaugurata anche nei confronti di dittatori come Omar Hasan al Bashir in Sudan e Isaias Afewerki in Eritrea. Due dei tre despoti (l’altro è Robert Mugabe, presidente dello Zimbawe) che Barack Obama non ha assolutamente voluto nella conferenza tra Stati Uniti e paesi africani, proprio per la persecuzione e la violazione costante dei diritti umani di cui sono accusati contro la loro stessa popolazione. A sostegno della “validità” di questa apertura di credito, la Farnesina cita tra l’altro il caso di Meriam Ibrahim, la giovane condannata a morte per apostasia in Sudan e liberata grazie alla mediazione italiana. Una vicenda che ha avuto il merito enorme di salvare una vita, ma che è stata anche accompagnata da una enorme eco mediatica, che Italia e Sudan non hanno esitato a cavalcare. Non una parola, invece, da parte della Farnesina, su altre difficili, spinose questioni. Come quella delle donne eritree alle quali la nostra ambasciata a Khartoum nega il visto per emigrare in Italia, nonostante i rispettivi mariti, residenti da anni nella penisola, abbiano ottenuto dal ministero degli interni il nulla osta per il ricongiungimento familiare e, di conseguenza, per farle arrivare tutte al più presto. E’ una situazione assurda, ma la Farnesina non dice una sola parola da mesi: continua a tenere quelle giovani sospese in un limbo senza fine. Forse per non “infastidire” Afewerki? Perché le loro storie sono una prova palese, “vivente”, di come l’Eritrea sia diventata una enorme prigione?
Ma l’elenco degli strani silenzi su Eritrea e Sudan è lungo. In un carcere situato a una trentina di chilometri da Khartoum, in pieno deserto, sono stati rinchiusi, circa un anno fa, oltre 200 ragazzi eritrei, arrestati per essere entrati nel paese senza né documenti né visto. Condannati a 8 mesi di prigione e ad una ammenda, hanno scontato la pena, ma quando il periodo di detenzione è scaduto, non li hanno rilasciati: il governo ha deciso di trattenerli in attesa di definire le pratiche per il loro rimpatrio forzato in Eritrea. Rimpatriarli, però, significa consegnarli proprio al regime dal quale sono fuggiti. Rischiano altra galera e altre persecuzioni, perché Asmara considera un crimine pesante l’espatrio clandestino, tanto più se si tratta di ragazzi in età di leva. Quelli che erano già arruolati e hanno abbandonato l’esercito, anzi, sono in una situazione ancora peggiore: sono considerati disertori in tempo di guerra (la guerra non combattuta ma mai finita contro l’Etiopia) e soggetti, dunque, al codice militare più duro. Pistelli e in generale la Farnesina sono informati di questa tragedia: hanno ricevuto appelli su appelli a intervenire. Tuttavia non risulta che né prima, né in occasione del recente incontro, ne abbiano fatto cenno e meno che mai che abbiano sollevato la questione ufficialmente, per chiedere al governo di Khartoum di liberarli e di annullarne il rimpatrio forzoso.
Sempre da Khartoum, negli stessi giorni in cui Pistelli presiedeva l’incontro con gli Stati africani, è arrivato l’ennesimo grido d’aiuto da parte di questi 200 profughi. Ora sono detenuti in due carceri gestiti da militari dell’Esercito, sempre nel deserto. Sono tutti richiedenti asilo: 168, di cui 33 ragazzini minorenni, nel lager di Alhuda e 95, incluse molte donne, in quello di Arebi. All’agenzia Habeshia, che sono riusciti a contattare con un cellulare, hanno raccontato di condizioni di vita degradanti: poco cibo, una situazione igienica disastrosa, scarsissima persino l’acqua da bere, spesso fangosa e salmastra. Senza contare i maltrattamenti continui da parte delle guardie, le minacce, gli insulti. Parecchi si sono ammalati, ma nessuno se ne prende cura. “Alcuni, i più gravi, sono stati portati via, ma non si sa dove – denuncia don Mussie Zerai, il presidente di Habeshia – Si sta verificando una evidente, totale violazione dei diritti fondamentali di queste persone. Persino del diritto alla vita, perché è in continuo pericolo la loro stessa sopravvivenza”.
L’ufficio di Khartoum del Commissariato Onu per i rifugiati è stato informato. Finora non si ha notizia che sia intervenuto in modo efficace. Dimenticati da tutti, intanto, molti di quei 200 profughi hanno iniziato lo sciopero della fame, in un estremo tentativo di far sentire la loro voce. Se nessuno li ascolterà, faranno anche lo sciopero della sete. E’ un rischio grave in quelle condizioni e con le temperature del deserto sudanese. “Mi hanno detto che la loro disperazione è tale, ormai, da essere disposti a tutto: anche a rischiare la vita”, racconta don Zerai.
Silenzio totale della Farnesina. Quasi si avesse timore di “guastare i colloqui” con Omar al Bashir per il Sudan e con Isaias Afewerki per l’Eritrea, in vista dell’incontro di Roma. Eppure questi colloqui potrebbero avere un senso soltanto se si riesce a imporre in via preliminare, prima ancora di cominciare a “discutere”, il rispetto dei diritti umani. Del resto, cosa intenda Afewerki per confronto e come sia abile a sfruttare l’insperata linea di credito che gli ha aperto l’Italia, emerge chiaramente dal comunicato diffuso da Asmara all’indomani del confronto di Khartoum. Il ministro degli esteri Osman Saleh, dopo aver dichiarato la totale disponibilità a contrastare i mercanti di uomini, ha specificato che occorre combattere non solo i clan criminali dei trafficanti, ma tutti i loro complici a vario titolo. E tra i “complici” ha incluso anche “l’attivismo per i diritti umani”. Come dire: le organizzazioni che cercano di aiutare i rifugiati e denunciano gli abusi e le persecuzioni che li costringono a scappare. Di più, ha parlato di accuse ingiuste nei confronti del suo governo, di “vittimizzazione” dei profughi e, in definitiva, di una “ingiustificata politicizzazione del problema”. Ci sarebbe, insomma, una sorta di complotto internazionale contro l’Eritrea, tendente a destabilizzare il paese e del quale il sostegno all’emigrazione illegale risulterebbe uno degli strumenti più insidiosi, insieme all’imposizione di “ingiuste sanzioni”. Quasi un’eco delle “inique sanzioni” lamentate da Mussolini quando ha aggredito, massacrato e schiavizzato l’Etiopia.

C’è da chiedersi, di fronte ad affermazioni del genere, come sia possibile aprire un dialogo. La Farnesina, con il viceministro Lapo Pistelli, insiste sulla via intrapresa. “Il dialogo è necessario: la pace si fa con i nemici”, ha specificato lo stesso Pistelli. Giustissimo: “La pace si fa con i nemici”. Ma non passando sulla testa delle vittime. Sulla vita dei perseguitati che, nella diaspora come in patria, sognano un’Eritrea diversa, libera e democratica.     

venerdì 17 ottobre 2014

More barriers in Europe, more torture in Libya


Emilio Drudi

Barriers ever higher in defense of Fortress Europe. A deeper round of torture and abuse for the refugees trapped in Libya. Forget the tears of family members and survivors who are back for a moment in the foreground, off the echo of the commitments undertaken by politicians and institutions flocked to Lampedusa on the occasion of the first anniversary of the massacre, in the aftermath of the "October 3" became the symbol of all the tragedies occurred in the Mediterranean and the Sahara or in transit countries, autumn promises an even darker future for migrants fleeing Africa and the Middle East. In the immigration policy in Europe is a crackdown strong, heavier than what was feared.
The most obvious sign is Mos Maiorum, the huge police operation, which began on October 13, will run for two weeks. Promoted by the Italian government as President of the EU Council and coordinated by the Ministry of the Interior, are engaged in throughout Europe, but especially in Italy, well 18,000 agents, instructed to stop, control, identify, filing many irregular migrants and asylum seekers as possible. A round-up of continental dimensions, that part made ​​from a presumption of guilt, as if to give breath to the idea that "illegal" means "criminal." The official explanation is that they want to fight, indeed, nip organizations smugglers. But it is at least remarkable that to fight the killers will strike the victims. Forgetting that the refugees, all the thousands and thousands of young people forced to flee their homeland to escape war and persecution, can not that be illegal. All the more so if, in the absence of channels for legal entry, the only chance, in this escape for life, is to rely precisely to the merchants of death who organize trips by slaves across the desert and the crossings of the Mediterranean in boats to lose. What will happen to the thousands of men and women who fell in the network is not known. To go well, eventually abandoned to themselves, other "ghosts" with no rights intended to crowd even more slums and palaces illegally occupied by thousands of other "invisible" like them. Not to mention the fear that for many can take rejection: the deportation to the coast from where they boarded, or worse, in the countries of origin from which they had to escape.
More than an intelligence operation "to gather relevant information for investigative purposes," in short, Mos Maiorum is a way to clean up the area by a mass of "undesirables." In the usual optics of the "defense of the borders," which insists on for years and that the Minister Alfano is increasingly shore in other European governments. The choice of this mega haul, in fact, does not arrive isolated. Almost all EU Member States have closed or are closing their borders to the desperate who arrived in Italy, hoping to continue to countries where they have friends and family willing to help or where, more simply, the reception system is better. France, in recent months, has sent back more than three thousand; Switzerland began a few weeks ago to adopt the same policy; Austria is doing it for some time: from early July to mid-September, more than 2,100 migrants "returned" to Italy.
And, speaking of boundaries, continues the practice of outsourcing: the movement of the European border on the southern shores of the Mediterranean, or even further south. Just 3 October, to deliver to the Tunisian Navy two new offshore patrol vessels built by the shipyard Victory Adria, there went the Minister Alfano. The minister of the interior. Not that the defense, as it would have been more logical, since the "military matters". It 's just a coincidence? Perhaps. But maybe not. The patrol vessels are ideal for control of the sea. Including migration routes. E 'strong suspect, then, that the delivery of these vessels should be read as the first step in a plan that tends to renew, pinching the mesh and extending its functions, the bilateral agreement on migration between Rome and Tunis signed in 2011 by 'then Interior Minister Roberto Maroni. To entrust that to Tunisia the same role as "policeman of the Mediterranean" assigned to Libya since 2009. The fact is that, back in Italy, Alfano has again stressed the need to defend the frontiers, confirming the imminent end of the operation Mare Nostrum and the beginning of Triton, the Italian chapter of the Community program Frontex Plus. Namely: l 'rise of another barrier. The new project of surveillance at sea, in fact, be limited to a range of a few miles wide territorial waters, thus defeating the only positive aspect of Mare Nostrum that, by providing controls to the limits of Libyan waters, has allowed at least to save tens of thousands of lives.
So the circle closes: raids across Europe and the sea much more insecure for migrants. Maybe this way there will be fewer arrivals on our shores. Only that there will inevitably be even more victims of the approximately 3,500 registered so far since the beginning of the year. It emphasizes, in short, against the indifference which turns off the cry for help that comes from refugees trapped on the shore of North Africa. Even as Libya hear news of abuse and torture growing. And 'the case of the prison of Abu Wissa, in operation since 2009 near Zawya, on the west coast. There are bunched in groups of 200 for large room, in conditions that define degrading is little more than 1,200 prisoners, mostly Eritreans and Ethiopians, guilty only of being migrants. One of them, on October 16, managed to "steal" a phone, by contacting the agency Habeshia: "There is no space even to move - he said - is breathing heavily. In desperation we mentioned in a gesture of protest, knocking everyone to the door. It 'been worse: we were stripped naked, whipped and forced to sleep outdoors. Many of us, in these conditions, you are sick. They're bad, but nobody takes care of them. Today, a Nigerian boy is dead. When the guards came to him said. 'Just as well, they said, so you will all have the same end' ... We are desperate. We request that someone help us. "
Those refugees are fleeing from dictatorships and persecution. Finished in the middle of the war of all against all that has thrown Libya into chaos, many have tried to take refuge in Tunisia. At the border you are presented clutching the card UNHCR, the UN High Commissioner attesting to their status as refugees and asylum seekers: "It did not do anything - denounce - The military on duty at the border there are not were to hear: we have rejected and forced to turn back. So we decided to turn to the Red Crescent, but Zawya we ran into a group of militiamen, who have arrested and thrown into the prison of Abu Wissa. It 'a concentration camp, where prisoners are tortured. Abuse and ill-treatment have become the pastime of the guards, who laugh and have fun while we scream in pain. It goes on like this for months ... ".
The prison in Misrata, set up in 2009 in the former school Bilqaria, is another circle of hell. The 400 inmates are all Eritreans. Among them, 50 women and 18 children. The men were often kidnapped and forced by militants to carry ammunition and supplies, during the fighting between the various factions, from the line of fire. Dozens were wounded, some were killed. Of about 200 no longer news when they brought them away as auxiliary slaves.
Don Mussie Zerai, the Eritrean priest Habeshia president of the agency, holds back the indignation: "It 's absurd. Europe continues to remain deaf, insensitive to the cries for help that arrive daily from these young people. Indeed, it now launches Mos Maiorum to stop those who, despite everything, managed to land, fleeing from the nightmare that has become today's Libya. Think not only to raise the walls to hear, let beyond the despair that rises from the South. That's why he continues to militarize the Mediterranean to prevent the 'last of the earth' come knocking on its doors. Then you have to give voice to those who have no voice today: we cry for them, inside the Fortress Europe, as long as the governments, all the institutions decide not to listen. We are facing an unprecedented humanitarian catastrophe: the only way to try to resolve it is to open embassies in Africa for asylum claims, establish access corridors legal issue visas for humanitarian reasons, family reunification, political asylum. We launch yet another appeal, in this sense, to all the chanceries of the Union. "
Analysis and outlets similar positions have been published in these days also from qualified organizations such as Amnesty International and the Association for Legal Studies on Immigration (ASGI), which, starting from the sad, terrible "body count" ask the European Union and all Member States, a radical shift in the policies and programs of welcome relief. Hotly contested in particular, by Amnesty, combined with the choice to launch raids police Mos Maiorum and close at the same time Mare Nostrum without a valid project "life-saving" alternative. While Fulvio Vassallo Palaeologus, a professor at the University of Palermo, on behalf Asgi announces the launch of a control program, called Ius Maiorum no coincidence that, in collaboration with the group Physicians for Human Rights (Medu), will present to the courts and to the institution a report on the abuses suffered by migrants at the end of Mos Maiorum. Abuses, notes Fulvio Vassallo Palaeologus, which began even before the official start of the operation, emphasizing the character of the detention centers host to force migrants to identify themselves or even rejected asylum seekers at the border, as happened to a group of refugees Syrian Crotone airport. "The same Frontex - detects Vassallo Palaeologus - it is actually 'pulled', making it clear that it intends to participate only as an observer. Mos Maiorum remains as an operation coordinated by the Italian Ministry of the Interior, perhaps the most visible fruit (and poisoned) from all over the Presidency of the European immigration. "

"All the European effort - adds Don Zerai - still focuses on programs to 'close'. With the only result of encouraging traffickers who profit on so many people desperate, proposing illegal ways, very expensive and extremely dangerous to reach Europe, as evidenced by the thousands of victims in recent years. Often it is argued that there are no economic resources to a policy of openness. But it can not be a matter of expense: to offer legal solutions and protected, would weigh on government budgets much less of all these defense mechanisms that we are putting in place. Raising walls is not the solution: it saves lives, it restores the dignity trampled the refugees, do not even need to contain the growing flow of immigrants. Better then spending the money lavished in the fight against intervention in the host and in policies to development and human rights in countries of origin and transit of migrants. Why nobody is forced to flee. There is no other way to win this battle. "

Più barriere in Europa, più torture in Libia


di Emilio Drudi

Barriere sempre più alte a difesa della Fortezza Europa. Un girone sempre più profondo di torture e abusi per i profughi intrappolati in Libia. Dimenticate le lacrime dei familiari e dei superstiti che per un momento sono tornate in primo piano, spenta l’eco degli impegni profusi da politici e istituzioni accorsi a Lampedusa in occasione del primo anniversario della strage, all’indomani di quel “3 ottobre” diventato il simbolo di tutte le tragedie che si consumano nel Mediterraneo e nel Sahara o nei paesi di transito, l’autunno prospetta un futuro ancora più buio per i migranti in fuga dall’Africa e dal Medio Oriente. Nella politica sull’immigrazione c’è in tutta Europa un giro di vite forte, più pesante di quello che si temeva.
Il segnale più evidente è Mos Maiorum, la gigantesca operazione di polizia che, iniziata il 13 ottobre, si protrarrà per due settimane. Promossa dal governo italiano come presidente di turno del Consiglio Ue e coordinata dal ministero degli interni, vede impegnati in tutta Europa, ma in particolare in Italia, ben 18 mila agenti, incaricati di fermare, controllare, identificare, schedare quanti più migranti irregolari e richiedenti asilo possibile. Una retata di dimensioni continentali, che parte di fatto da una presunzione di colpevolezza, quasi a ridare fiato all’idea che “clandestino” equivale a “criminale”. La giustificazione ufficiale è che si vogliono combattere, anzi, stroncare le organizzazioni dei trafficanti di uomini. Ma appare almeno singolare che per combattere i carnefici si colpiscano le vittime. Dimenticando che i rifugiati, tutte le migliaia e migliaia di giovani costretti a fuggire dal proprio paese per salvarsi da guerre e persecuzioni, non possono che essere clandestini. Tanto più se, in mancanza di canali di ingresso legali, l’unica chance, in questa fuga per la vita, è quella di affidarsi appunto ai mercanti di morte che organizzano i viaggi da schiavi attraverso il deserto e le traversate del Mediterraneo sui barconi a perdere. Che fine faranno le migliaia di uomini e donne caduti nella rete non è noto. Ad andare bene, finiranno abbandonati a se stessi, altri “fantasmi” senza diritti destinati ad affollare ancora di più le baraccopoli e i palazzi occupati abusivamente da altre migliaia di “invisibili” come loro. Per non dire del timore che per molti possa scattare il respingimento: la deportazione verso le coste dalle quali si sono imbarcati o, peggio, nei paesi d’origine da cui sono dovuti scappare.
Più che una operazione di intelligence per “raccogliere informazioni rilevanti per scopi investigativi”, insomma, Mos Maiorum appare un modo per ripulire il territorio da una massa di “indesiderabili”. Nella solita ottica della “difesa dei confini”, sulla quale insiste da anni il ministro Alfano e che trova sempre più sponda in altri governi europei. La scelta di questa mega retata, infatti, non arriva isolata. Quasi tutti gli Stati membri dell’Unione hanno chiuso o stanno chiudendo le proprie frontiere ai disperati che, giunti in Italia, speravano di proseguire verso paesi dove hanno amici e familiari pronti ad aiutarli o dove, più semplicemente, il sistema di accoglienza è migliore. La Francia, negli ultimi mesi, ne ha rimandati indietro oltre tremila; la Svizzera ha cominciato da alcune settimane ad adottare la stessa politica; l’Austria lo sta facendo già da tempo: dai primi giorni di luglio a metà settembre oltre 2.100 migranti “riconsegnati” all’Italia.
E, a proposito di confini, continua la pratica della esternalizzazione: lo spostamento della frontiera europea sulla sponda meridionale del Mediterraneo o ancora più a sud. Proprio il 3 ottobre, a consegnare alla Marina tunisina due nuovi pattugliatori d’altura, costruiti dai cantieri Vittoria di Adria, c’è andato il ministro Alfano. Il ministro degli interni. Non quello della difesa, come sarebbe stato più logico, trattandosi di “questioni militari”. E’ solo un caso? Forse. Ma forse no. I pattugliatori sono le navi ideali per il controllo del mare. Incluse le rotte dei migranti. E’ forte il sospetto, allora, che la consegna di queste navi vada letta come il primo passo di un piano tendente a rinnovare, stringendone le maglie e ampliandone le funzioni, l’accordo bilaterale sull’emigrazione tra Roma e Tunisi firmato nel 2011 dall’allora ministro dell’interno Roberto Maroni. Ad affidare cioè alla Tunisia lo stesso ruolo di “gendarme del Mediterraneo” assegnato fin dal 2009 alla Libia. Sta di fatto che, rientrato in Italia, Alfano ha di nuovo insistito sulla necessità di difendere le frontiere, confermando la fine ormai prossima dell’operazione Mare Nostrum e l’inizio di Triton, il capitolo italiano del programma comunitario Frontex Plus. Ovvero: l’innalzamento di un’altra barriera. Il nuovo progetto di sorveglianza in mare, infatti, si limiterà ad una fascia di poche miglia più larga delle acque territoriali, vanificando così l’unico aspetto positivo di Mare Nostrum che, prevedendo controlli fino ai limiti delle acque libiche, ha consentito almeno di salvare decine di migliaia di vite umane.
Così il cerchio si chiude: retate in tutta Europa e mare molto più insicuro per i migranti. Forse in questo modo ci saranno meno arrivi sulle nostre coste. Solo che ci saranno inevitabilmente ancora più vittime delle circa 3.500 registrate finora dall’inizio dell’anno. Si accentua, insomma, l’indifferenza contro cui si spegne il grido di aiuto che arriva dai profughi intrappolati sulla sponda del Nord Africa. Proprio mentre dalla Libia giungono notizie di soprusi e torture crescenti. E’ il caso del carcere di Abu Wissa, in funzione dal 2009 vicino a Zawya, sulla costa occidentale. Vi sono ammassati, a gruppi di 200 per stanzone, in condizioni che definire degradanti è poco, più di 1.200 detenuti, in maggioranza eritrei ed etiopi, colpevoli solo di essere migranti. Uno di loro, il 16 ottobre, è riuscito a “rubare” una telefonata, mettendosi in contatto con l’agenzia Habeshia: “Non c’è spazio nemmeno per muoversi – ha raccontato – Si respira a fatica. Per disperazione abbiamo accennato a un gesto di protesta, bussando tutti alla porta. E’ stato peggio: siamo stati denudati, frustati e costretti a dormire all’aperto. Molti di noi, in queste condizioni, si sono ammalati. Stanno male, ma nessuno si prende cura di loro. Oggi un ragazzo nigeriano è morto. Quando sono venute le guardie glielo abbiamo detto. ‘Meglio così, ci hanno risposto, tanto farete tutti la stessa fine’… Siamo disperati. Chiediamo che qualcuno ci aiuti”.
Quei profughi sono fuggiti da dittature e persecuzioni. Finiti in mezzo alla guerra di tutti contro tutti che ha gettato la Libia nel caos, molti hanno tentato di rifugiarsi in Tunisia. Al confine si sono presentati stringendo in mano la tessera dell’Unhcr, il Commissariato dell’Onu, che attesta il loro status di rifugiati e richiedenti asilo: “Non è servito a nulla – denunciano – I militari in servizio alla frontiera non ci sono neanche stati a sentire: ci hanno respinto e costretto a tornare indietro. Allora abbiamo pensato di rivolgerci alla Mezzaluna Rossa, ma a Zawya siamo incappati in un gruppo di miliziani, che ci hanno arrestato e gettato nel carcere di Abu Wissa. E’ un lager, dove i detenuti vengono torturati. Soprusi e maltrattamenti sono diventati il passatempo delle guardie, che ridono e si divertono mentre noi urliamo per il dolore. Va avanti così da mesi…”.
Il carcere di Misurata, allestito nel 2009 nell’ex scuola di Bilqaria, è un altro girone infernale. I 400 detenuti sono tutti eritrei. Tra loro, 50 donne e 18 bambini. Gli uomini sono stati spesso sequestrati e costretti dai miliziani a trasportare munizioni e rifornimenti, durante i combattimenti tra le varie fazioni, fin sulla linea del fuoco. Sono rimasti feriti a decine, alcuni sono stati uccisi. Di circa 200 non si ha più notizia da quando li hanno portati via come ausiliari schiavi.
Don Mussie Zerai, il sacerdote eritreo presidente dell’agenzia Habeshia, trattiene a stento l’indignazione: “E’ assurdo. L’Europa continua a restare sorda, insensibile alle grida di aiuto che arrivano ogni giorno da questi giovani. Anzi, ora lancia Mos Maiorum per arrestare chi, nonostante tutto, riesce a sbarcare, fuggendo dall’incubo che è diventata oggi la Libia. Pensa solo ad alzare muri per non sentire, lasciare al di là, la disperazione che sale dal Sud del mondo. Ecco perché continua a militarizzare il Mediterraneo: per impedire che gli ‘ultimi della terra’ giungano a bussare alle sue porte. Allora bisogna dar voce a chi oggi non ha voce: gridare noi per loro, all’interno della Fortezza Europa, finché i governi, tutte le istituzioni, non decideranno di ascoltare. Siamo di fronte a una catastrofe umanitaria senza precedenti: l’unico modo per cercare di risolverla è quello di aprire le ambasciate in Africa alle richieste di asilo, istituire corridoi di accesso legali, rilasciare visti per motivi umanitari, ricongiungimento familiare, asilo politico. Lanciamo l’ennesimo appello, in questo senso, a tutte le cancellerie dell’Unione”.
Analisi e prese di posizioni analoghe sono state pubblicate in questi giorni anche da organismi qualificati come Amnesty International o l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che, partendo dalla triste, terribile “conta dei morti”, chiedono all’Unione Europea e a tutti gli Stati membri una svolta radicale nelle politiche di accoglienza e nei programmi di soccorso. Contestatissima in particolare, da parte di Amnesty, la scelta abbinata di varare le retate di polizia di Mos Maiorum e di chiudere contemporaneamente Mare Nostrum senza alcun valido progetto “salvavita” alternativo. Mentre Fulvio Vassallo Paleologo, docente all’Università di Palermo, annuncia per conto dell’Asgi l’avvio di un programma di controllo, denominato non a caso Ius Maiorum che, in collaborazione con il gruppo Medici per i diritti umani (Medu), presenterà alle corti di giustizia e alle istituzione un rapporto sui soprusi subiti dai migranti al termine di Mos Maiorum. Soprusi, fa notare Fulvio Vassallo Paleologo, cominciati già prima dell’inizio ufficiale dell’operazione, accentuando il carattere detentivo dei centri accoglienza per costringere i migranti a farsi identificare o addirittura respingendo alla frontiera dei richiedenti asilo, come è accaduto a un gruppo di profughi siriani all’aeroporto di Crotone. “Lo stesso Frontex – rileva Vassallo Paleologo – si è di fatto ‘sfilato’, chiarendo che intende partecipare soltanto come osservatore. Mos Maiorum rimane così un’operazione coordinata dal ministero dell’interno italiano, forse il frutto più visibile (e avvelenato) di tutto il semestre di presidenza europeo in materia di immigrazione”.

“Tutto lo sforzo europeo – aggiunge don Zerai – si concentra ancora nei programmi per ‘chiudersi’. Con l’unico risultato di favorire i trafficanti che lucrano su tanta gente disperata, proponendo vie illegali, molto costose ed estremamente pericolose, per raggiungere l’Europa, come dimostrano le migliaia di vittime degli ultimi anni. Spesso si obietta che non ci sono risorse economiche per una politica di apertura. Ma non può essere una questione di spese: offrire soluzioni legali e protette, peserebbe sui bilanci pubblici molto meno di tutti questi meccanismi di difesa che si stanno mettendo in atto. Alzare muri non è la soluzione: non salva vite umane, non ridà la dignità calpestata ai profughi, non serve nemmeno a contenere il flusso crescente di immigrati. Meglio allora spendere il denaro profuso nella lotta all’immigrazione in interventi di accoglienza e in politiche volte a dare sviluppo e diritti nei paesi d’origine e di transito dei migranti. Perché nessuno sia più costretto a scappare. Non c’è altra via per vincere questa battaglia”.

giovedì 16 ottobre 2014

Titolo di studio o qualifica professionale conseguita all'estero.

Carissimi

come anticipato nelle precedenti email il sito qualifyme.it è online!

Esso rappresenta un valido strumento per operatori e cittadini stranieri che devono districarsi tra complicate maglie burocratiche per vedere riconosciuto il proprio titolo di studio o qualifica professionale conseguita all'estero.

Si rivolge a cittadini stranieri dell'UE, extra UE e Titolari di protezione internazionale, ed offre un percorso di orientamento ad hoc a seconda delle proprie esigenze e finalità, dando l'opportunità di avere tutte le informazioni che necessitano (documentazione utile, uffici a cui rivolgersi, link utili etc. etc.) in una scheda che è possibile scaricare direttamente dal sito.

A questo punto abbiamo soltanto bisogno del vostro supporto per diffondere presso il maggior numero possibile di reti e potenziali utenti questo strumento che rappresenta per noi un importante punto di partenza.

Al seguente link tutte le informazioni per la diffusione di qualifyme.it ed il banner qualora si volesse inserire un link diretto all'interno del proprio sito internet


Grazie per l'aiuto!

Ilaria Lucaroni

Ricercatrice
Associazione Parsec - Ricerca e Interventi socialiwww.parsec-consortium.it
P.zza Vittorio Emanuele II, 2 - 00185 Roma
Tel. 06-446.34.21 (dir.)
cell. 347.6401915
Skype I.D. ilaria.lucaroni
LinkedIn   Ilaria Lucaroni

lunedì 13 ottobre 2014

Mos Maiorum: l’arma per abolire Mare Nostrum

Comunicato stampa
Mos Maiorum: l’arma per abolire Mare Nostrum

13 ottobre 2014 – Ai superstiti dei tanti naufragi degli ultimi tempi nel Mediterraneo mancava proprio questo: di essere presi di mira adesso dal “costume degli antenati”, ovvero dall’operazione Mos Maiorum. Non solo non possono arrivare in un modo normale e sicuro in Europa, non solo devono pagare trafficanti e rischiare la vita per richiedere asilo in questo continente, non solo una volta e finalmente arrivati sulle coste di in uno dei paesi della sponda nord del Mediterraneo non possono raggiungere in modo regolare il paese di destinazione, dove una rete familiare e di sostegno li aspetta, no, adesso devono anche nascondersi per fuggire dall’apparato poliziesco che oggi, 13 ottobre, si è messo a caccia di loro.
Vediamo gli obiettivi dell’operazione Mos Maiorum come vengono elencati nel documento del Consiglio dell’Unione Europea del 10 luglio 2014 quando, da appena pochi giorni, era iniziata la Presidenza italiana dello stesso Consiglio.
Primo obiettivo è “fermare migranti irregolari e raccogliere informazioni rilevanti a scopo di intelligence e investigazione” – come fanno i 18mila poliziotti degli Stati Membri coinvolti nell’operazione a distinguere tra profughi, richiedenti asilo e migranti irregolari? Non sanno quelli che hanno ideato questa manovra che ormai da 18 mesi la stragrande maggioranza di quelli che, forzatamente, arrivano in modo irregolare nell’Unione Europea sono rifugiati e non migranti?
Secondo obiettivo: “ identificare, perseguire e fermare gruppi della criminalità organizzata” – non sanno quelli che hanno redatto questo testo che i gruppi di trafficanti di persone vengono guidati da centrali operative in Nord Africa e nel Medio oriente, ovvero in paesi chiaramente fuori dalla zona operativa di Mos Maiorum?
Un altro obiettivo è quello di “raccogliere e analizzare informazioni sui cosiddetti movimenti migratori”. Invece di creare meccanismi utili ad evitare che i richiedenti asilo o i rifugiati debbano far ricorso a questi “movimenti secondari”, naturalmente irregolari, l’operazione si concentra sui network di quelli che lucrano sulla disperata ricerca dei rifugiati di arrivare a destinazione e che esistono solo per l’assenza del diritto alla libera circolazione dei rifugiati in Europa.
L’operazione, pianificata alcuni mesi fa, non a caso inizia pochi giorni dopo le commemorazioni del 3 ottobre a Lampedusa. "Purtroppo, non resta che una chiave di lettura: una parte della politica europea, quella che comanda gli apparati di sicurezza, intende dare un segnale molto preciso di contrasto alle dichiarazioni fatte 10 giorni fa a Lampedusa anche dal Presidente del Parlamento Europeo, Martin Shultz e dalla Presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini sulla necessità di aprire canali umanitari di accesso dei rifugiati in Europa, di promuovere una maggiore solidarietà tra gli Stati Membri e di continuare l'opera di salvataggio in mare nell'ambito di o analogamente a  Mare Nostrum", dichiara Christopher Hein, Direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR). "Quindi, sulla pelle dei rifugiati e dei richiedenti asilo, si sta giocando una lotta politica sui futuri orientamenti dell’Unione e dei singoli Stati Membri rispetto a temi chiave quali la protezione internazionale, il diritto d’asilo e il rispetto dei diritti umani. Vogliamo, come CIR, ricordare che la protezione e l'accoglienza dei perseguitati ha da sempre fatto parte del costume degli antenati nonché della cultura costituzionale italiana", conclude Christopher Hein.

Consiglio Italiano per i Rifugiati
Ufficio stampa e comunicazione
Yasmine Mittendorff
Via del Velabro, 5/a  00186 Roma
tel. 06 69200114 - 230
fax. 06 69200116
mittendorff@cir-onlus.org

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martedì 7 ottobre 2014

Rapporto Internazionale “Futuri contrabbandati Il pericoloso percorso del migrante dall’Africa all’Europa'' Versione italiana

                             Roma, 1 ottobre  2014
Cari colleghi,
in occasione del 1° anniversario della strage di Lampedusa del 3 ottobre, vi invio il Rapporto internazionale, allegato, dal titolo ''Futuri contrabbandati -il pericoloso percorso del migrante dall'Africa all'Europa'' , appena tradotto in italiano (qui la versione originale in inglese http://www.globalinitiative.net/smuggled-futures/) e realizzato dall'Iniziativa Globale contro il crimine organizzato transnazionale''.(www.globaliniziative.net), che ha sede a Ginevra e si presenta come ‘’una rete che si occupa dell'applicazione di  normative fondamentali in materia di crimine organizzato, governance e formazione di professionisti dello sviluppo impegnati a fornire strategie innovative e risposte concrete contro il crimine organizzato’’.  In allegato potrete trovare una breve presentazione dell' 'Iniziativa Globale contro il crimine organizzato''
Il rapporto, attraverso il lavoro di diversi inviati nelle zone chiave del problema,  tra cui, ovviamente, l'Italia e gli snodi cruciali in Africa del dramma e del traffico dei migranti, propone un documento significativo e originale, in termini di prospettive, dati e testimonianze, riguardo ''Il difficile percorso del migrante dall'Africa all'Europa'', fornendo strumenti ritengo molto utili e originali  per il vostro lavoro e per una maggiore comprensione umana sociale e storica del sofferto percorso dei migranti.Molte le storie di migranti qui riportate così come le testimonianze di associazioni italiane o di studiosi  intervistati sia in Italia che in Africa. Centro Astalli per i Rifugiati, l'Archivio delle Memorie Migranti, il Consiglio Italiano per i Rifugiati, con un'ampia e dettagliata testimonianza analitica dalla Libia, l'agenzia Habeisha  ed autorevoli altre associazioni impegnate giorno per giorno; insieme, soprattutto,a chi questo dramma l'ha vissuto in prima persona come per es, Dagmawi Yimer o l'ha raccontato in vari reportagès, come Stefano Liberti etc, ci hanno fornito interviste e materiali preziosi e originali. Troverete, dicevo, anche grafici, dati, statistiche, contestualizzazioni, sono certo, di grande interesse per voi così attenti puntuali e lungimiranti nei vostri articoli
 
Vengono raccontate per es. quali sono le strade che i migranti sono costretti a percorrere, a quali pericoli lungo la rotta vanno incontro e come si potrebbero evitare e ricevere informazioni e testimonianze su aspetti spaventosi, drammi ignoti magari del tutto o quasi ai grandi media come le migliaia di persone sequestrate, ricattate violentate od assassinate nel deserto. Ed opinioni, non prive di critiche, sul ruolo dell’Europa in tutto questo particolare e complesso contesto. Di particolare interesse, tra le altre, la dettagliata testimonianza dalla Libia di Gino Barsella del Consiglio Italiani Rifugiati.
 
E' un Rapporto molto esteso, probabilmente uno dei primi mai realizzato su questa scala, con una pluralità di voci importanti e molto qualificate (non per niente l'''Economist''  ha dedicato a questo Report un lungo servizio qualche settimana fa).Mi auguro che possiate utilizzarne e citarne qualche parte e che, in ogni caso, vi interessi e vi appassioni come ha appassionato –e per certi aspetti, sconvolto-noi. Nostro auspicio e principale motivazione sono naturalmente che questo lavoro possa stimolare i policy makers, l'opinione pubblica, i media e le istituzioni e soprattutto possa essere in qualche modo d'aiuto alla sofferenza di migliaia di esseri umani che ogni giorno sono costretti a lasciare il proprio Paese a causa della guerra, delle persecuzioni o di altre gravi difficoltà.
Siete liberi di pubblicarlo per intero, se credete o a tranches a seconda delle circostanze o ''semplicemente'',se credete, a recensirlo o citarlo.
 
Vi ringraziamo molto della vostra attenzione
 
                                           Umberto Rondi
           Giornalista, autore delle interviste italiane del Report
               
    

Un anno dopo Lampedusa: 365 giorni di promesse ed ipocrisia


di Emilio Drudi

Tre ottobre 2013. Giusto un anno fa. E’ quasi l’alba. Un barcone carico di migranti arranca verso Lampedusa. Arriva a 800 metri dalla riva: sembra fatta. Invece si ribalta e affonda. Un naufragio assurdo, avvenuto in circostanze mai davvero chiarite. A bordo ci sono oltre 500 persone: uomini, donne, bambini. Quasi tutti eritrei, fuggiti dalla dittatura, dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla galera a cui li condanna il regime di Isaias Afewerki. Per 366 di loro non c’è scampo.
Questa di Lampedusa è la “madre” di tutte le innumerevoli, continue stragi del Mediterraneo: 26 mila morti degli ultimi vent’anni. L’impressione è enorme. L’Italia, l’Europa, il mondo intero vengono richiamati alle proprie, pesanti responsabilità nei confronti dei tanti perseguitati che gridano aiuto al Nord del pianeta. Ai “potenti della terra”.
Sono passati 12 mesi. Un anno terribile, che ha segnato il record di arrivi in Europa dall’Africa e dal Medio Oriente: oltre 135 mila. Ma anche il record di vittime: oltre tremila, secondo l’ultimo rapporto dell’Oim, l’Organizzazione mondiale per l’immigrazione. Perché di “viaggi della speranza” si continua a morire. Sotto gli occhi di tutti.
L’Italia, all’indomani della strage, fu prodiga di impegni e promesse, sancite da parole e lacrime di commozione. Ma che cosa è cambiato da allora, da quel 3 ottobre 2013? Non molto. Anzi, nulla. Sulla scia dell’emozione generale, il governo Letta varò l’operazione Mare Nostrum. Poi basta. Siamo ancora fermi lì. Con il governo Renzi, anzi, le cose vanno anche peggio. E’ lunghissima la lista dei “perché”. 

– Mare Nostrum e Frontex. Renzi ha abolito l’operazione Mare Nostrum, varata da Letta, per adottare quella di Frontex Plus, d’intesa con l’Unione Europea. Mare Nostrum obbedisce alla stessa logica “emergenziale” di Frontex, che fa del problema profughi una questione di sicurezza e di polizia: la cosiddetta “difesa delle frontiere” dalla “minaccia” dell’emigrazione clandestina. Ne hanno parlato più volte sia Renzi che, soprattutto, il ministro degli interni Alfano. Si tratta, insomma, di un progetto “securitario”, che interviene “a valle” con misure di tipo militare, ignorando totalmente ciò che avviene a monte, dove sono le cause e le origini del problema. Non a caso si contava anche sulla collaborazione della Libia, incaricata, come “gendarme del Mediterraneo”, di bloccare i profughi nelle sue acque territoriali o prima che si imbarcassero oppure addirittura alla frontiera meridionale, in pieno deserto. Solo che nell’ultimo anno la Libia è implosa nella lotta di tutti contro tutti tra nuovo governo, vecchio governo, gruppi jihadisti, ex generali golpisti. Così lì nessuno può bloccare i profughi: anzi, si sono moltiplicate le organizzazioni criminali che sfruttano quei disperati, spesso con la complicità di miliziani, militari, poliziotti, la stessa guardia costiera. Risultato: le partenze si sono moltiplicate, addirittura con liste d’attesa a più mesi presso gli scafisti.
L’unico dato positivo, in tutto questo caos, era che, con le regole d’ingaggio di Mare Nostrum, le navi italiane potevano intervenire anche in acque internazionali e fino alle soglie di quelle libiche. Proprio questo ha consentito di recuperare o di salvare migliaia di persone in pericolo. Ora, abolito Mare Nostrum (al massimo dovrebbe avere un altro mese di vita), con Frontex Plus viene meno anche questa unica azione encomiabile, anche se in buona parte inattesa e “maturata per strada”. Resta soltanto l’intento “securitario”: una barriera da erigere ai margini delle acque territoriali europee. La “frontiera”, appunto, di cui continua a parlare Alfano. E già gli effetti si vedono: da diversi giorni c’è un giro di vite nei controlli sui profughi, fotosegnalati spesso prima ancora di arrivare nei Centri di accoglienza, in modo da poter applicare rigidamente (su richiesta dell’Europa) il protocollo di Dublino, che vincola i rifugiati al primo paese dell’Unione al quale si rivolgono per chiedere asilo.
C’è da rimpiangere – nonostante i suoi difetti di base o, meglio, la sua “filosofia” di base – quel progetto Mare Nostrum che ormai è alla fine per volontà del nostro stesso Governo guidato da Renzi. I vertici della Marina hanno chiesto di prolungare e trasformare questa operazione, mettendola sotto l’egida Onu. Non hanno avuto ascolto. In compenso il ministro della difesa Roberta Pinotti ha proposto e insiste che della questione ora si occupi la Nato. C’è da chiedersi che cosa c’entri la Nato: a meno che non si voglia accentuare ancora di più l’aspetto militare-securitario. Farne definitivamente, cioè, un problema di “difesa”.

– I canali umanitari. In sette mesi di governo, non è stata pronunciata una sola parola e non è stata avviata una sola, magari piccolissima, iniziativa per i “canali umanitari”, che sono l’unico sistema valido per sottrarre i profughi al ricatto e ai soprusi dei mercanti di morte e di esseri umani. Non una parola in Italia, nei programmi di governo. Non una parola in Europa, nonostante questo sia il semestre a guida italiana. C’è da chiedersi perché. I canali umanitari sono il primo passo per impostare un diverso sistema di accoglienza, comune e condiviso da tutta l’Unione Europea, abbandonando la mentalità emergenziale con cui finora si è affrontato il problema immigrazione. Se Renzi vuole davvero “dare una svolta”, perché non parla di queste cose in Europa, invece di accettare supinamente Frontex Plus, presentandolo come un successo ed anzi una conseguenza diretta di Mare Nostrum?

– Il sistema di accoglienza. E’ continuato, anzi, è peggiorato lo stato di abbandono a cui sono condannati i profughi dopo il salvataggio e lo sbarco. I Cara sono stati ampliati o sono stati aperti altri centri di soggiorno. Sono state potenziate, cioè, le strutture che sono l’ossatura base del nostro sistema di accoglienza. Solo che queste strutture si sono rivelate autentici ghetti, dove i profughi vengono abbandonati a se stessi per mesi e mesi: inizia da qui l’odissea che fa di migliaia di loro dei “fantasmi”, non persone senza alcun diritto. E’ vero che non si poteva e non si può fare tutto e subito. Non si poteva smantellare senza alcun “piano b”, cioè, l’attuale meccanismo. Solo che non è stato dato neanche il minimo segnale che appena possibile si intende rivedere questo nostro sistema che, per riconoscimento unanime, è il peggiore d’Europa, insieme a quello greco.

– I patti bilaterali. Non una parola, in sette mesi, sull’abolizione dei patti bilaterali Italia-Libia, che affidano a Tripoli il compito di “gendarme” contro l’emigrazione, fornendogli mezzi e istruttori. Le motovedette libiche, che sempre più spesso sparano sulle barche dei migranti, non di rado sono quelle “donate” dall’Italia. E nell’ultima versione del “patto” (luglio 2013, governo Letta), si prevedeva anche la fornitura di mezzi terrestri (jeep, blindati, ecc.) per il controllo del confine meridionale. Ovvero: l’Italia ha condotto finora una politica di spostamento del “confine da controllare” sempre più a sud, fino in pieno Sahara, in modo che certe tragedie avvengano “lontano dagli occhi”. Con Renzi non risulta che sia cambiato nulla. E’ cambiato solo il fatto che la Libia non esiste quasi più. Si può anche scegliere di continuare su questa linea, ma si dovrebbe almeno pretendere che quel poco di “autorità istituzionale” che resta a Tripoli, dia almeno qualche garanzia sul rispetto dei diritti umani e provi a fare il possibile in questo senso. Invece, silenzio. E’ esemplare un episodio di questi giorni. E’ stato segnalato all’agenzia Habeshia che in un centro di detenzione improvvisato a Tripoli in un campo di basket, militari filogovernativi hanno venduto a una organizzazione di scafisti circa 300 profughi. Non si sa che fine abbiano fatto queste persone. Habeshia ha chiesto ripetutamente al Governo (viceministro Lapo Pistelli, funzionari vari, parlamentari delle commissioni esteri, ecc.) di far intervenire l’ambasciatore italiano, per cercare almeno di chiarire le cose. Finora non sono arrivati cenni di riscontro da nessuna fonte ministeriale, parlamentare, governativa.

– “Canali umanitari” straordinari. Continua l’indifferenza anche su situazioni straordinarie contingenti, che potrebbero essere risolte abbastanza agevolmente. Altri Stati, come la Repubblica Svizzera, hanno dimostrato che certe vie sono percorribili nonostante il caos che c’è in Libia: è dei giorni scorsi la notizia che, proprio attraverso il nostro ambasciatore, l’unico rimasto a Tripoli, il governo elvetico ha attivato un “canale umanitario” specifico per far partire da Tripoli un bambino, arrivato in Libia con la zia e rinchiuso in  un centro di detenzione, per consentirgli di arrivare a Lugano, dove vive la madre. In sostanza, si è attivata una pratica di ricongiungimento, risolta con la concessione di un visto Schengen per motivi umanitari. La stessa soluzione si sta tentando ora per una ragazzina attesa in Svizzera dalla famiglia. Al ministero degli esteri italiano Habeshia ha fatto appello ripetutamente per attivare un canale umanitario simile, in modo da portare in Italia, per ragioni mediche d’urgenza, cinque giovani donne gravemente ferite: erano su un pick-up che si è rovesciato mentre tentava di sfuggire alle raffiche sparate dalla polizia a un posto di blocco. Una, la più grave, è ricoverata a Tripoli: rischia di restare paralizzata. Le altre quattro sono state allontanate dall’ospedale e sono ospiti attualmente di un giovane profugo eritreo, praticamente senza cure. Secondo le ultime notizie arrivate ad Habeshia, qualcuna rischia che le ferite vadano in cancrena. Nessuna risposta finora né dal viceministro Pistelli, né da altri.
Secondo caso: le ambasciate italiane di Khartoum e di Addis Abeba negano il visto d’ingresso a decine di giovani donne (qualcuna anche con i figli piccoli) sposate con profughi residenti regolarmente in Italia da tempo, nonostante abbiano ottenuto dal ministero degli interni il nulla osta per il ricongiungimento familiare. Tutti i documenti che attestano la conclusione positiva della “pratica” sono stati presentati alle due ambasciate, ma il personale diplomatico si ostina a non tenerne conto. Il ministero degli esteri è stato sollecitato più volte da Habeshia a chiedere conto ai due ambasciatori di questo strano comportamento, che annulla di fatto un nulla osta concesso ufficialmente dal ministero degli interni. Basterebbe una telefonata. Né Pistelli né altri hanno ritenuto di farla. Forse perché si tratta di “profughe comuni”, che non attirano l’attenzione dei media, come il caso di Meriam, la giovane condannata a morte per apostasia, che si è svolto proprio in Sudan?
Indifferenza totale c’era prima, insomma, con i governi Berlusconi, Monti e Letta. La stessa indifferenza si registra ancora oggi.

– Caso Eritrea. Mai come adesso la dittatura di Isaias Afewerki risulta isolata e posta sotto accusa da parte della comunità internazionale, per la sistematica violazione dei diritti umani. Sono in corso due indagini parallele in proposito: una dell’Onu e l’altra di Human Rights Wathc. Ebbene, proprio in questo momento il governo Renzi, con il recente viaggio del viceministro agli esteri Lapo Pistelli nel Corno d’Africa, ha aperto una enorme, inattesa linea di credito al regime. Non tenendo conto, tra l’altro, che proprio dall’Eritrea arriva un’altissima percentuale dei profughi che sbarcano in Italia e in Europa: si calcola che tra il 30 e il 40 per cento dei 135 mila arrivati da gennaio a oggi siano appunto in fuga dal regime di Asmara. La percentuale sale ancora di più se si considerano soltanto i minorenni non accompagnati.
Perché questa scelta improvvisa da parte del governo italiano? Quali interessi persegue? Certamente non quelli dei profughi e degli oppositori del regime rimasti in Eritrea. Non, in una parola, della grande maggioranza della popolazione, che sogna un paese libero e “normale”. Forse si vuol fare di Afewerki una specie di Gheddafi eritreo, con un rapporto preferenziale con l’Italia, per garantire certi equilibri geopolitici? Una specie di “pax africana” nella regione orientale che, assicurata da uno o più “dittatori amici” (quelli che la diplomazia americana chiamava “i nostri bastardi”), consenta di “fare affari” in relativa sicurezza? Non sono un mistero gli interessi manifestati da importanti gruppi economici e da società multinazionali per tutta l’area del Corno d’Africa, inclusa l’Eritrea, dove si parla di grosse possibilità di sfruttamento minerario, turistico, edilizio, agricolo, ecc. Per non dire del rilancio in atto dello sfruttamento petrolifero in regioni (Somaliland, Puntland, Ogaden, Jubaland) a strettissimo contatto con l’Eritrea.
Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che i concetti espressi da Pistelli a nome del Governo, all’indomani del viaggio ad Asmara (colloquio necessario per uscire dallo “stallo” degli ultimi vent’anni; superamento del retaggio coloniale; Eritrea come paese cardine per i nuovi equilibri e per lo sviluppo dell’intero Corno d’Africa) sono esattamente gli stessi citati nel 2009 da Berlusconi. Anzi: Pistelli e Berlusconi hanno addirittura usato quasi le stesse parole. Ma, a proposito di Berlusconi, si è poi scoperto che all’ombra di quella volontà di “pacificazione” si era creata una specie di “Asmara spa”, come l’hanno chiamata alcune inchieste giornalistiche, con varie società decise a investire e a fare affari in mezza Eritrea sotto la protezione di Afewerki e di altri ras del regime.

Anche questa volta ci sono sotto degli “affari”? Affari che contano più dei diritti umani? Affari che sembrano far dimenticare all’Italia che una nuova Eritrea libera e democratica può nascere solo da una “resa dei conti” con la dittatura. Non si sa come avverrà questa resa dei conti: potrà essere un bagno di sangue oppure – è sperabile – una operazione di “verità e giustizia” come quella attuata da Nelson Mandela in Sud Africa. Di certo, però, ci sarà. Perché non è concepibile un’altra Eritrea insieme ad Afewerki. O l’una o l’altro. Così come non sono conciliabili la lotta di migliaia di giovani profughi della diaspora e il regime del dittatore. Per l’Italia, allora, si tratta di decidere: con quale Eritrea vuole schierarsi? Finora ha parlato solo con Afewerki. Anzi, con il governo Renzi ha intensificato questi colloqui.