mercoledì 11 febbraio 2015

Profughi, nuove stragi “figlie” dell’indifferenza




di Emilio Drudi

E’ una strage annunciata quella dei circa 400 migranti, uccisi dal freddo o inghiottiti dal marementre cercavano di raggiungere l’Italia dalla costa africana su quattro fragili gommoni, nonostante il Canale di Sicilia fosse sconvolto da una bufera tremenda, con onde alte nove metri, raffiche di vento gelato fortissime, temperature vicine allo zero. Annunciata dalla ulteriore barriera innalzata dalla Fortezza Europa con la fine dell’operazione Mare Nostrum e il varo del progetto Triton, che si limita a pattugliare una fascia di 30 miglia, poco più delle acque territoriali. E annunciata, ancora, dal caos denso di morte in cui la guerra di tutti contro tutti che infuria da anni ha gettato la Libia.
“Con un mare così brutto – dicono alcuni profughi rifugiati in Italia dall’Eritrea, il paese da cui verosimilmente venivano molte delle vittime – tutti quei disperati non si sarebbero certamente imbarcati se non fossero stati costretti. Alcuni superstiti lo hanno confermato: li hanno obbligati a partire, sotto la minaccia delle armi, i trafficanti di uomini ai quali si erano affidati. Quei predoni i soldi per la traversata li avevano già incassati e ai loro occhi quelle vite non avevano alcun valore. Non è un mistero. In Libia non c’è più nemmeno un’ombra di autorità statale in grado di garantire un minimo di sicurezza. Così hanno campo libero clan criminali senza scrupoli, veri e propri racket legati alle varie milizie che si contendono il potere, inclusi i jihadisti fondamentalisti. E il traffico dei profughi-schiavi è diventato una delle fonti privilegiate e più redditizie di autofinanziamento, oltre che un business mafioso. Ci sono decine, forse centinaia di migliaia di migranti intrappolati nel paese. Tenendo conto che un solo imbarco rende fino a 2.000 dollari e il riscatto per essere rilasciati dai centri di detenzione almeno mille, è facile fare i conti: è un affare da milioni di dollari. Le istituzioni libiche non possono o non vogliono fare nulla. E’evidente, allora, che di questo problema deve farsi carico l’Europa. In particolare quegli Stati che nel 2011 si sono schierati in armi con la ‘primavera araba’, promettendo tutto il loro impegno per la costruzione di un paese libero e democratico”.
Questo quadro di disperazione è confermato dalle notizie giunte nelle ultime settimane all’agenzia Habeshia. Oltre ai profughi bloccati da tempo in Libia, continuano ad arrivarne a migliaia dal Sudan. “Lungo il tragitto – hanno raccontato alcuni testimoni – molti muoiono nel deserto, abbandonati dai mercenari che hanno organizzato il trasferimento o vittime del fuoco dei miliziani da cui vengono intercettati. I posti di blocco lungo le strade sono frequenti. Gli uomini armati che li presidiano, poliziotti o militari, non esitano a sparare al minimo cenno di fuga”. Così è uno stillicidio continuo di morti e feriti. Uno di questi è Hassan, costretto a camminare con le stampelle dopo che gli hanno sparato. E’ detenuto in un grosso capannone vicino a Tripoli insieme ad altre 400 persone, tra cui circa 150 donne e 50 bambini. Da lì è riuscito a telefonare all’agenzia Habeshia. “Siamo circondati da uomini armati – ha raccontato – Non possiamo uscire. La promiscuità è spaventosa. Non c’è neanche un bagno: la gente è costretta a fare i propri bisogni lì dove vive. L’aria è irrespirabile per il fetore. Parecchi di noi sono malati e sette donne sono in stato di gravidanza terminale, ma non si è mai visto un medico. Per questo inferno ciascuno di noi ha dovuto versare 1.800 dollari ai trafficanti, che sono in combutta con le milizie che controllano Tripoli. E situazioni analoghe si ripetono lungo tutto il tragitto che abbiano fatto dal Sudan fino a Tripoli. Ovunque ci sono profughi trattenuti dai miliziani: soltanto chi paga può proseguire il viaggio. Si sente sparare continuamente: raffiche ma anche armi pesanti. Abbiamo paura che il nostro capannone venga colpito da qualche bomba: sarebbe un massacro”.
Non c’è da stupirsi di tutto questo. La Libia è totalmente fuori controllo. Il governo “laico” scaturito dalle ultime, disertate elezioni, è costretto a rimanere trincerato aTobruck, in una zona militarizzata vicino al porto: nei momenti di maggiore tensione ha dovuto addirittura rifugiarsi su una nave ancorata in rada. Il governo islamico moderato, che non si è mai dimesso e non ha mai riconosciuto la validità delle elezioni, non riesce a garantire la sicurezza nemmeno nel perimetro urbano di Tripoli. Lo dimostra il recente assalto condotto contro il Corinthia Hotel, nel centro della città, da una cellula di terroristi, ennesimo gradino della escalation delle forze dell’Isis, che hanno già stabilito da tempo nel comprensorio di Derna, in Cirenaica, un califfato collegato a quello di Iraq e Siria e che si preparerebbero ora a fare lo stesso a Tripoli. Come riferisce Guido Ruotolo sulla Stampa, anzi, secondo stime di ambienti vicini al governo “laico” di Tobruck, l’appello per questa nuova conquista sarebbe stato accolto finora da oltre 6 mila miliziani jihadisti, che si troverebbero già in Libia, provenienti da vari paesi.
In questa situazione si è diffusa la voce che sarebbe sul punto di essere chiusa anche l’ambasciata italiana, la sola rimasta a Tripoli tra tutte le diplomazie occidentali. La notizia non ha trovato conferma alla Farnesina e fonti parlamentari assicurano che i nostri uffici diplomatici continuano a funzionare, mantenendo contatti equidistanti con tutte le forze in campo e risultando di fatto, per ammissione di entrambi i “governi” libici, l’unico deterrente all’implosione definitiva dello Stato. Ma la situazione è in rapida evoluzione e non è da escludere che possano maturare condizioni di minaccia tali da indurre a ritirarsi. Incluso un attacco dell’Isis o una situazione di guerra con interventi sul campo anche occidentali.
Appare chiaro, allora, che  il “caso” Libia non può più essere ignorato dall’Unione Europea. Per la situazione generale ma, in particolare, come primo punto, proprio per la tragedia infinita dei profughi intrappolati nel paese, che sono “l’effetto collaterale” più grave e urgente del caos che si trascina da anni. Gli appelli a Bruxelles perché affronti finalmente il problema si fanno sempre più numerosi. Il primo lo ha lanciato il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, che dalla fine di Mare Nostrum si trova di nuovo sulla “linea del fuoco” ed ha contestato senza mezzi termini che la strage dell’ottobre 2013 sembra non aver lasciato traccia nei cuori e nelle menti. Identico il tono degli interventi di numerose organizzazioni umanitarie e dei vescovi: “E’ una tragedia lancinante – ha dichiarato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei – che pesa sulla coscienza dell’intera Europa”.
Va diretto al nocciolo del problema anche don Mussie Zerai. “Questo ennesimo massacro è il risultato di una Unione Europea che ha preferito voltarsi dall’altra parte per non vedere il dramma che si sta consumando nel Mediterraneo. Non serve sfilare davanti alle bare e non serve dire belle parole di fronte alle vittime e ai loro familiari: servono fatti, scelte politiche in grado di prevenire queste tragedia”, ha detto il presidente di Habeshia, proposto qualche giorno fa come candidato al Premio Nobel per la Pace. E, ammonendo che quanto è accaduto tra domenica e lunedì potrebbe essere soltanto l’inizio di una strage infinita, ha aggiunto alcune indicazioni per fronteggiare la nuova catastrofe che si profila: “Stando alle notizie che ci giungono dalle coste libiche, ci sono migliaia di disperati in procinto di partire. C’è il rischio concreto che il massacro di questo inizio settimana si ripeta già nei prossimi giorni perché i miliziani che gestiscono il traffico costringono a partire con le armi in pugno centinaia di giovani, uomini e donne, dopo essersi fatti pagare una media di 1.800 dollari da ognuno. Allora, proprio perché la Libia è sprofondata in questo caos, chiediamo con forza al Governo Italiano e all’Unione Europea di ripristinare il progetto Mare Nostrum, almeno fino alla stabilizzazione politica del paese. A fronte dell’emergenza causata dallo strapotere dei trafficanti di esseri umani, che continueranno a mandare allo sbaraglio i profughi caduti nelle loro mani, occorre trovare subito una soluzione d’emergenza. Mare Nostrum può essere la risposta. Lo dimostra quanto ha fatto nei dodici mesi in cui ha operato. Di sicuro, invece, i pattugliamenti previsti dall’operazione Triton non sono né adeguati né efficaci. E non ha senso dire, come fanno il premier Matteo Renzi e il ministro degli interni Angelino Alfano, che anche con Mare Nostrum si morivaOvvio che poi la radice del problema sono le situazioni disastrose non solo della Libia ma dei paesi dai quali i profughi sono costretti a scappare per salvarsi la vita. Ma chi le ha create o comunque favorite questa situazioni? Non c’entrano forse la politica e gli interessi del Nord del mondo? Il punto adesso è salvare quante più vite possibile. Mare Nostrum ha provato a farlo, spingendo le sue navi sino ai limiti delle acque territoriali libiche. Triton è soltanto un piano di polizia teso a chiudere le frontiere europee”.
La necessità di ripristinare Mare Nostrum è stata sottolineata anche dall’ex premier Enrico Letta che l’ha varato: “Anche a costo di perdere voti”, ha sottolineato, come monito al governo Renzi. Dello stesso avviso è l’onorevole Erasmo Palazzotto, presidente del Comitato Africa, che introduce anzi una novità: proporrà al Parlamento di rilanciare Mare Nostrum con la collaborazione dell’Unione Europea ma, soprattutto, chiedendo di metterlo sotto l’egida dell’Onu. Come aveva indicato mesi fa anche la Marina Italiana.

COMUNICATO DEL 10 FEBBRAIO 2015


La campana del cimitero mediterraneo ha ripreso a suonare a morto. Sono ventinove questa volta i lugubri rintocchi, perché ventinove sono le vittime accertate, il che fa pensare che la cifra sia ancora una volta approssimata per difetto. Senza contare almeno altre 40 e più vittime registrate in circostanze analoghe a quelle dell’ultima strage, esattamente nelle stesse acque, tra lo scorso primo novembre (quando si è chiusa l’operazione Mare Nostrum) e il 31 dicembre 2014.
Ma forse dovremmo piuttosto chiamarlo discarica a cielo aperto, a questo punto, il Mediterraneo, perché i 29 sono soltanto, soltanto, le vittime del primo naufragio che dall’inizio dell’anno arriva a bucare il muro di gomma dei media italiani. Anche di quelli internazionali, dato che la stessa Al Jazeera lo riporta con rilievo.
A tutto disdoro dell’Italia, se è per questo, dato che lo fa evidenziando il nesso causa effetto tra la fine di Mare Nostrum, quanto accaduto e quanto accadrà.
Proprio così, questa è l’apertura della season degli orrori, cui l’anno scorso Mare Nostrum aveva concesso una parentesi di tregua. Una bella parentesi, se, come appare dalle cifre ufficiali, ha comportato il salvataggio in un anno di 170 mila persone.
Ma Mare Nostrum è stato chiuso per motivi di bilancio, motivazione in verità debole assai dato che, se proprio vogliamo tradurre in cifre i salvataggi, questi nel loro complesso hanno comportato un costo mensile medio di circa 9 milioni di euro, per un totale quindi che non dovrebbe superare i 120 milioni in tutto il suo anno di operatività. Non ci vengano a dire che in tempi di crisi il popolo italiano non può permettersi il lusso di un simile esborso, perché non di spesa aggiuntiva si tratta, bensì di somma da sottrarre da una spesa militare complessivamente valutata in 50 - 70 milioni di euro al giorno. Come dire che il salvataggio di 170 mila persone ha avuto un costo pari a quello di 2 giorni – due – di spese militari.
Viene da chiedersi dove siano i Diritti Umani di cui l’Occidente si è fatto storico portatore, dove siano le Nazioni Unite e il loro Consiglio per i Diritti Umani, che pure non più di un mese fa ha inviato in Italia un esperto con l’incarico di redigere un rapporto sul problema, dove sia l’UNHCR che pure dei rifugiati ha come missione occuparsi. Dove sia la nostra Costituzione.
Viene da chiedersi, ed è disperante farlo, se non ci sia un soggetto di diritto internazionale, in grado di porre fine a questa ecatombe consumata sull'altare di un benessere che la crisi che stiamo vivendo ha già di per sé posto in discussione.
Noi di “Verità e Giustizia per i nuovi desaparecidos” sappiamo di non avere la forza per ribaltare i criteri di Realpolitik su cui i nostri governanti continuano a ispirare le loro scelte politiche sicuri dell’impunità, e ci proponiamo di trovare prove e testimonianze per fare ricorso a quella che dovrebbe essere l’unica arma della civiltà, il diritto, attraverso l’istituzione di un tribunale internazionale di opinione che rappresenta per noi il primo passo per poter adire tutte le istanze competenti, a livello sia nazionale che europeo ed internazionale.
Ma non possiamo nasconderci che sarà un processo lungo e difficile, punteggiato dall’incalzare degli
inevitabili lugubri rintocchi di una strage cui non possiamo che chiamare tutti coloro che ancora si sentono umani ad aiutarci a porre fine.
Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos

martedì 10 febbraio 2015

Libya: Urgent Appeal! Refugees in danger in the Mediterranean


The latest tragedy of refugees frozen to death in the Mediterranean is the result of an EU which has preferred to look the other way, not to see the drama that is unfolding in the Mediterranean. Do not just pull out in front of the corpses, and not just pretty words do not say in front of the tragedies, but we need facts, chosen policies to Prevent, Prevent, Prevent these tragedies.

From the news reaching us from the Libyan coast, thousands are in the process of starting only this weekend, the risk a repeat of the drama is real. Because the same militias who are managing this traffic, and force from hundreds of people with weapons in hand. Before making pay $ 1,800 per person.
Our heartfelt appeal to the Italian government and the European Union has since Libya and plunged into total chaos, you have to restore the project Mare Nostrum, "at least" until the political stabilization of Libya, in the current context where anarchy reigns of militiamen who do deal with human traffickers, serves an emergency solution to save human lives.
Frontex, Triton ect ... are not an effective response to save hundreds of people who will be sent into the fray in the coming days. Because many tragedies will wear before they even get close to the 30 miles provided by the current program of the European patrol.
Don Mussie Zerai

Libia: Appello Urgente! Profughi in pericolo nel Mediterraneo

L'ennesima tragedia dei profughi morti assiderati nel mediterraneo è il risultato di una UE che ha preferito di voltarsi dall'altra parte, per non vedere il dramma che si sta consumando nel Mediterraneo. Non basta sfilare difronte alle salme, e non basta ne meno dire belle parole difronte alle tragedie, ma servono fatti, scelte politiche volte a Prevenire, Prevenire, Prevenire queste tragedie.

Dalle notizie che ci giungono dalle coste libiche, sono migliaia in procinto di partenza solo in questo fine settimana, il rischio che si ripeta il dramma è concreto. Perché gli stessi milizie che stanno gestendo questo traffico, e costringono a partire centinaia di persone con armi in pugno. Prima facendosi pagare $1.800 a persona.
Il nostro accorato appello al governo italiano e all'Unione Europea è dal momento che la Libia e piombata nel caos totale, bisogna ripristinare il progetto Mare Nostrum, "almeno" fino alla stabilizzazione politica della Libia, nel attuale contesto dove regna l'anarchia dei miliziani che fanno affare con trafficanti di esseri umani, serve una soluzione di emergenza per salvare le vite umane.  
Frontex, Tritone ect ... non sono una risposta efficace per salvare centinaia di persone che saranno mandati allo sbaraglio nei prossimi giorni. Perché molte tragedie si consumeranno prima ancora di avvicinarsi ai 30 miglia previsti dal attuale programma di pattugliamento europeo.
don Mussie Zerai

mercoledì 4 febbraio 2015

Candidate for the Nobel Peace Don Mussie Zerai, the angel of refugees





Emilio Drudi

Don Mussie Zerai, founder and president of the agency Habeshia, is among the candidates for the Nobel Prize for Peace. His name was proposed by Kristian Berg Harpiken, director of international research Oslo peace, for the work that takes place for years, right through Habeshia, in defense of the rights and lives of asylum seekers and migrants fleeing war, dictatorship, terrorism, persecution, hunger and misery.
It 'just the first step towards the prestigious award, which will be awarded in the month of December. The same Harpiken throws water on the fire: "Often the first names circulating are burned and almost never the forecasts are met." But the fact itself that it has received the "nomination" confirms that the activities conducted by Don Zerai and Habeshia has attracted attention at the highest levels. Although, in truth, more in Europe and the United States than in Italy, even if the agency was founded, has taken the initial steps and continues to operate at the forefront.
The news of the nomination reached Don Zerai in Zurich, where he carries out his pastoral mission to the Eritrean and Ethiopian communities sheltered in Switzerland. Has not decomposed much. It is not his style, anyway. "I enjoy it, of course - he said - but let's stop here ... There are dozens of candidates. Beginning with Pope Francis, who surely many more titles and merits of me. Admitted that I have merits such as to be proposed even for the Nobel. In fact, I just do what I think right. I will just try to implement what the Pope himself has shown since he took office: go to the suburbs and take the side of the last of the earth, to look at problems with their eyes. Nothing more. And if all this is recognized worthy of the Nobel, then I hope that it serves to push the North of the world, the powerful of the earth as Bergoglio Pope says, to break down the walls of Fortress Europe coming to a reception system unique, accepted and shared by all EU Member States, and finally change the policy carried out in the South. Because often it is this policy to force millions of young people to leave their homes. "
He would not say more. The proposed Harpiken, however, does not seem to get to the event, after one year, 2014, in which the tragedy of the refugees exploded dramatic than ever before, with nearly 170 thousand landings in Italy, more than 3,600 deaths in the Mediterranean and an escalation continues that, according to the latest data from UNHCR, has led to 53 million the number of people forced into the world in a 'flight for life' from their country. A massive exodus, never recorded before in history, but that, given the continuing proliferation of crisis situations, marks the culmination not only the beginning of a terrible problem, with which the whole world will have to deal.
The point is right here. Don Zerai is the symbol of this momentous problem. Not by chance is known as "the angel of the refugees." A name that has gained in the international press for everything he has done in recent years, placing themselves without reserve to the service of the victims of a tragedy that, as he often says, is rooted also in prejudice, opportunism, in conformity indifference of millions of men and women who have the good fortune to be born and to live in the "privileged part" of the earth.
Even Don Zerai has a history of refugee. Born in Eritrea, Asmara, is fortuitously expatriate in Italy in 1992, just seventeen, as a political refugee. It 'a story that has never forgotten and that has indeed marked the life since that spring morning that ridestandosi finally free to Rome where he had arrived the night before, he felt a moral obligation to put his experience and his strength in the service of other young people like him. Become an activist for human rights was the natural outcome of this choice, which he later confirmed and strengthened in the years of studies: Philosophy in Piacenza 2000-2003, theology within five years and then social morality at the University Pontifical Urban up to 2010, when he was ordained a priest.
The mission that has taken care has intensified especially right after he took the vows, to coincide with the worsening of the story of refugees due to a series of crises erupted in Africa and the Middle East. E 'was among the first, in those years, from the late summer of 2010, to report the slave trade in the Sinai. It 'a wound still open: hundreds of young people caught in the desert, near the border of Israel, by bands of marauding Bedouins linked to international criminal organizations that claim to every prisoner redemptions rose rapidly from 8-10 thousand to 40-50 thousand dollars and threatening to hand over those who can not pay the market of organs for transplants illegal. His complaints, made through the agency Habeshia, along with those of other humanitarian organizations, have aroused sensation around the world, but the echo is off in a few weeks, without the international community has ever made really load this appears true humanitarian emergency.
Since then there has been a crescendo of horror. The slave trade in the Sinai has decreased but has never ceased. Even after Israel closed its border in 2012 with Egypt, raising an impenetrable barrier of barbed wire and electronic sensors. It 'just changed the criminal strategy: instead of waiting for the migrants in the Sinai, the raiders now luring them with the lure of an expatriate in Europe or even kidnap them directly in the centers of temporary residence scattered between Sudan and Ethiopia. Indeed the Mafia traffickers extended and rooted its tentacles all along the escape routes of migrants, both in transit countries to Europe than in the initial reception: Ethiopia, Egypt, Libya. Sudan, especially, where the bands from the Sinai Bedouin have transferred their operational bases. While the crisis, riots, wars, famines exploded from 2010 to today, continue to produce refugees and asylum seekers and, therefore, "human material" to be exploited by traffickers to death.
Don Zerai has become a reference point for the victims of all this: first in Rome, where he exercised the initial phase of his priesthood, and now in Switzerland. Your contact information from cell phones to personal numbers Habeshia agency, are now considered a lifeline for young prisoners of raiders, for families who have no more news of their loved ones, for asylum seekers in the camps Libyans relegated , for migrants forgotten in Egyptian prisons or in refugee camps in Sudan, refugees left to themselves in Italy. Despairing of which often does not deal with anyone. And he, in addition to doing everything possible to organize a network of direct aid, continues to document and fight because this tragedy enters as a priority on the agenda of the UN, EU and all Western governments.
His voice has not been unheard: was repeatedly heard by the High Commissioner for Refugees; in June 2012 has had a formal hearing with the then US Secretary of State Hillary Clinton in Washington; was convened by the commissions Affairs and Human Rights of the European Union to which he delivered in particular, at the beginning of November 2012, a report on the terrible conditions of detention centers in Libya; in 2013 and last year had three meetings in Brussels on the situation in Libya and in the Mediterranean and a debate on human trafficking with the EU Commissioner Cecilia Malmstron. A year ago, has faced this same problem in the Vatican, during an interview with Luis de Baca, the US State Department. His dossier in several cases have become the basis for international investigations by the prosecution or the individual countries and has been contacted several times as "expert" by various MEPs and Italian.
"But it is still only the beginning of a long and difficult - continues to repeat - this huge tragedy will be solved, as he warned Pope Francis, only when the mighty of the earth will change their policy towards the South. The last of the earth. "

Candidato al Nobel per la Pace don Mussie Zerai, l’angelo dei profughi


 di Emilio Drudi

Don Mussie Zerai, fondatore e presidente dell’agenzia Habeshia, è tra i candidati al Premio Nobel per la Pace. Il suo nome è stato proposto da Kristian Berg Harpiken, direttore dell’Istituto di ricerca internazionale di pace di Oslo, per l’opera che svolge da anni, proprio attraverso Habeshia, in difesa dei diritti e della vita stessa dei richiedenti asilo e dei migranti in fuga da guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni, fame e miseria.
E’ solo il primo gradino verso il prestigioso riconoscimento, che verrà assegnato nel prossimo mese di dicembre. Lo stesso Harpiken getta acqua sul fuoco: “Spesso i primi nomi che circolano vengono bruciati e quasi mai le previsioni sono rispettate”. Ma il fatto in sé di aver ricevuto la “nomination” conferma come l’attività condotta da don Zerai e da Habeshia abbia attirato l’attenzione ai più alti livelli. Anche se, in verità, più in Europa e negli Stati Uniti che in Italia, dove pure l’agenzia è stata fondata, ha mosso i passi iniziali e continua a operare in prima linea.
La notizia della nomination ha raggiunto don Zerai a Zurigo, dove svolge la sua missione pastorale per la comunità eritrea ed etiopica riparata in Svizzera. Non si è scomposto più di tanto. Non è nel suo stile, del resto. “Mi fa piacere, è ovvio – ha dichiarato – ma fermiamoci qui… Ci sono decine di candidati. A cominciare da papa Francesco, che ha sicuramente molti più titoli e meriti di me. Ammesso che io abbia meriti tali da essere proposto addirittura per il Nobel. In realtà, io faccio solo ciò che ritengo giusto. Mi limito a cercare di attuare quello che proprio il Papa ha indicato fin da quando si è insediato: andare verso le periferie e schierarsi dalla parte degli ultimi della terra, per guardare ai problemi con i loro occhi. Niente di più. E se tutto questo è riconosciuto degno del Nobel, allora mi auguro che serva a spingere il Nord del mondo, i potenti della terra come dice papa Bergoglio, ad abbattere le mura della Fortezza Europa arrivando a un sistema di accoglienza unico, accettato e condiviso da tutti gli Stati dell’Unione, e a cambiare finalmente la politica condotta nel Sud del mondo. Perché spesso è proprio questa politica a costringere milioni di giovani ad abbandonare la propria casa”.
Non ha voluto aggiungere altro. La proposta di Harpiken, tuttavia, non sembra arrivare per caso, dopo un anno, il 2014, nel quale la tragedia dei profughi è esplosa drammatica come mai in precedenza, con quasi 170 mila sbarchi in Italia, oltre 3.600 morti nel Mediterraneo e una escalation continua che, secondo gli ultimi dati dell’Unhcr, ha portato a 53 milioni il numero delle persone costrette nel mondo a una ‘fuga per la vita’ dal proprio paese. Un esodo enorme, mai registrato prima nella storia, ma che, visto il continuo moltiplicarsi delle situazioni di crisi, segna non il culmine ma solo l’inizio di un problema terribile, con cui l’intero pianeta dovrà fare i conti.
Il punto è proprio qui. Don Zerai è il simbolo di questo problema epocale. Non a caso è noto come “l’angelo dei profughi”. Un appellativo che si è guadagnato sulla stampa internazionale per tutto quello che ha fatto in questi anni, mettendosi senza riserve al servizio delle vittime di una tragedia che, come lui stesso ripete spesso, affonda le radici anche nel pregiudizio, nell’opportunismo, nel conformismo, nell’indifferenza di milioni di uomini e donne che hanno la fortuna di essere nati e di vivere nella “parte privilegiata” della terra.
Anche don Zerai ha un passato di profugo. Nato in Eritrea, ad Asmara, è espatriato fortunosamente in Italia nel 1992, appena diciassettenne, come rifugiato politico. E’ una vicenda che non ha mai dimenticato e che gli ha anzi segnato la vita fin da quella mattina di primavera che, ridestandosi finalmente libero a Roma dove era arrivato la sera prima, ha sentito l’obbligo morale di mettere la sua esperienza e le sue forze a servizio di altri giovani come lui. Diventare attivista per i diritti umani è stato lo sbocco naturale di questa scelta, che ha poi confermato e rafforzato negli anni degli studi: filosofia a Piacenza dal 2000 al 2003, teologia nei cinque anni successivi e poi morale sociale presso l’Università Pontifica Urbaniana fino al 2010, quando è stato ordinato sacerdote.
La missione che ha voluto darsi si è intensificata in particolare proprio dopo che ha preso i voti, in concomitanza con l’aggravarsi della vicenda dei profughi a causa di tutta una serie di situazioni di crisi esplose in Africa e nel Medio Oriente. E’ stato tra i primi, in quegli anni, a partire dalla tarda estate del 2010, a segnalare la tratta degli schiavi nel Sinai. E’ una piaga tuttora aperta: centinaia di giovani catturati nel deserto, verso il confine di Israele, da bande di predoni beduini collegate a organizzazioni criminali internazionali, che pretendono per ogni prigioniero riscatti saliti rapidamente da 8-10 mila a 40-50 mila dollari e che minacciano di consegnare chi non riesce a pagare al mercato degli organi per i trapianti clandestini. Le sue denunce, fatte attraverso l’agenzia Habeshia, insieme a quelle di altre organizzazioni umanitarie, hanno destato sensazione in tutto il mondo, ma l’eco si è spenta in poche settimane, senza che la comunità internazionale si sia mai fatta davvero carico di questa che appare un’autentica emergenza umanitaria.
Da allora c’è stato un crescendo di orrore. Il traffico di schiavi nel Sinai è diminuito ma non è mai cessato. Nemmeno dopo che Israele ha chiuso nel 2012 la sua frontiera con l’Egitto, innalzando una barriere impenetrabile di filo spinato e sensori elettronici. E’ solo cambiata la strategia criminale: anziché attendere i migranti nel Sinai, i predoni ora li adescano con il miraggio di un espatrio in Europa o addirittura li rapiscono direttamente nei centri di soggiorno provvisorio sparsi tra il Sudan e l’Etiopia. Anzi la mafia dei trafficanti ha esteso e radicato i suoi tentacoli lungo tutte le vie di fuga dei migranti, sia nei paesi di transito verso l’Europa che in quelli di prima accoglienza: Etiopia, Egitto, Libia. Il Sudan, soprattutto, dove le bande beduine hanno trasferito dal Sinai le proprie basi operative. Mentre le crisi, le rivolte, le guerre, le carestie esplose dal 2010 ad oggi, continuano a produrre fuggiaschi e richiedenti asilo e, dunque,  “materiale umano” da sfruttare per i trafficanti di morte.
Don Zerai è diventato un punto di riferimento per le vittime di tutto questo: prima a Roma, dove ha esercitato la fase iniziale del suo sacerdozio, ed ora in Svizzera. I suoi recapiti, dai telefoni cellulari personali ai numeri dell’agenzia Habeshia, sono ormai considerati un’ancora di salvezza per i giovani prigionieri dei predoni, per le famiglie che non hanno più notizie dei loro cari, per i richiedenti asilo relegati nei lager libici, per i migranti dimenticati nelle carceri egiziane o nei campi profughi del Sudan, per i rifugiati abbandonati a se stessi in Italia. Disperati dei quali spesso non si occupa nessuno. E lui, oltre a fare il possibile per organizzare una rete di aiuto diretto, continua a documentare e a battersi perché questa tragedia entri come prioritaria nell’agenda dell’Onu, dell’Unione Europea e di tutte le cancellerie occidentali.
La sua voce non è rimasta inascoltata: è stato più volte sentito dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati; nel giugno 2012 ha avuto un’audizione ufficiale con l’allora segretario di stato americano Hillary Clinton a Washington; è stato convocato dalle commissioni affari interni e per i diritti dell’uomo dell’Unione Europea alle quali ha consegnato in particolare, all’inizio del novembre 2012, un rapporto sulle terribili condizioni dei centri di detenzione in Libia; nel 2013 e lo scorso anno ha avuto tre incontri a Bruxelles sulla situazione in Libia e nel Mediterraneo e un confronto sul traffico di esseri umani con il commissario Ue Cecilia Malmstron. Un anno fa ha affrontato questo stesso problema in Vaticano, nel corso di un colloquio con Luis de Baca, del Dipartimento di Stato americano. I suoi dossier sono diventati in diversi casi la base per inchieste della magistratura internazionale o dei singoli paesi ed è stato più volte contattato come “esperto” da vari parlamentari europei e italiani.

“Ma è ancora soltanto l’inizio di un lavoro lungo e difficile – continua a ripetere – Questa enorme tragedia troverà soluzione, come ha ammonito papa Francesco, solo quando i potenti della terra cambieranno la loro politica nei confronti del Sud del Mondo. Degli ultimi della terra”.