domenica 24 maggio 2015

L’ultimo massacro dell’Isis: i superstiti intrappolati in Libia


di Emilio Drudi

Hanno vissuto in diretta l’orrore dell’ultimo massacro attuato dai miliziani dello Stato Islamico in Libia, costretti ad assistere all’esecuzione in massa di 43 compagni, uccisi con un colpo alla nuca, in ginocchio davanti ai loro carnefici. Altri 14, vestiti di una tuta arancione, sono stati sgozzati e decapitati. Sono seguiti giorni, settimane terribili, passati a studiare il Corano, con la morte negli occhi e nel cuore, dopo essere stati testimoni obbligati della sorte che li attendeva rifiutando di abbracciare l’Islam. Alla prima occasione sono fuggiti. I carcerieri li stanno braccando: se verranno ripresi, non avranno scampo. L’unica speranza di salvezza è lasciare al più presto la Libia. Finora, però, hanno trovato tutte le vie sbarrate. Per mare e per terra. E ogni ora, ogni minuto che passa, è una scommessa con la morte.

Sono cinque ragazzi – quattro minorenni e uno poco più che ventenne – che facevano parte del gruppo di 80 profughi bloccati dai guerriglieri islamisti all’inizio di marzo mentre, provenienti da Khartoum, tentavano di raggiungere Tripoli. E’ stato sicuramente un agguato. I miliziani armati, più di trenta, li aspettavano al varco: hanno bloccato il camion su cui viaggiavano insieme ad altre decine di migranti e selezionato accuratamente le vittime da sequestrare, scegliendo solo gli eritrei e gli etiopi. Tutti di religione cristiana. E tutti ammazzati senza pietà, tranne dieci donne e i tredici uomini più giovani, risparmiati come “vergini” e ragazzi da convertire. Oltre un mese dopo, almeno quei cinque sono riusciti a scappare, sfruttando l’opportunità di uno scontro a fuoco con un’altra formazione armata, che ha costretto i loro aguzzini ad allentare la vigilanza. Hanno camminato per tre giorni nel deserto, quasi senza fermarsi e sempre con l’incubo di essere rintracciati. Quando, esausti, hanno deciso di cercare un po’ di riposo in un villaggio ai margini del Sahara, nel sud della Libia, poco è mancato che i miliziani li catturassero di nuovo: hanno lasciato appena in tempo la casa dove un contadino sudanese li aveva accolti. Da lì hanno raggiunto la  costa, non lontano da Sirte.
Durante la fuga si è unito a loro un altro ragazzo, anch’egli eritreo, ma di religione islamica, e a sua volta scappato da un gruppo di terroristi dell’Isis. Pare sia stato proprio lui a trovare il modo di stabilire un contatto telefonico tra i cinque e alcuni amici della diaspora in Europa, per dare l’allarme e chiedere aiuto, raccontando le circostanze precise dell’agguato, della strage (nel frattempo resa nota anche dai miliziani con un filmato diffuso sul web) e dell’evasione. Fermarsi a Sirte, però, era troppo rischioso: la zona è controllata in gran parte proprio dalle bande armate dello Stato Islamico. Hanno puntato a ovest. Sempre a piedi e sempre con  il cuore gonfio di paura. Arrivati a Tripoli, hanno scartato subito l’idea di tentare la traversata del Mediterraneo su un barcone: nessuno di loro ha soldi sufficienti per coprire la “tariffa” pretesa dai trafficanti. Non restava che la  via di terra, verso la Tunisia, nella speranza di riuscire a passare il confine.

Alla frontiera sono arrivati il 18 maggio, al valico di Ras Gdair. Pensavano di avere buone chances, anche perché una loro amica eritrea esule a Londra aveva nel frattempo preso contatto con la sede di Tunisi dell’Unhcr,, il Commissariato dell’Onu per i rifugiati, ottenendone l’impegno a farsi carico dei sei giovani non appena avessero messo piede nel paese, proprio per i rischi mortali che corrono in Libia. Invece non hanno avuto fortuna. Hanno spiegato alla polizia tunisina che stavano scappando dall’Isis, che sono forse gli unici scampati all’ultima strage di ostaggi, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. Che l’Unhcr li avrebbe accolti. Che restare in Libia può diventare una condanna a morte. Non c’è stato nulla da fare: respinti.
Non era finita. Rientrando dal posto di confine tunisino, i sei ragazzi sono stati fermati da due agenti della polizia libica. Temevano di essere arrestati. Sono stati ricattati: lo hanno raccontato loro stessi all’amica “londinese” che in questi giorni si è stabilita in Tunisia per cercare di aiutarli. I due poliziotti, dopo averli interrogati, hanno detto che sarebbero stati in grado di procurare a tutti un imbarco sicuro. Era solo questione di soldi. Se poi non avevano abbastanza denaro, avrebbero potuto pagare le spese lavorando per un certo periodo per loro o per alcuni loro conoscenti. Per quanto tempo e che tipo di lavoro? Tutto da stabilire. Dovevano però decidere presto, perché lì, al posto di frontiera, non potevano restare. Hanno rifiutato, ma il ricatto continua: gli agenti non hanno cessato di tormentarli con le loro richieste e pressioni. Con minacce sempre più esplicite.

Ora quei giovani sono sempre al valico di Ras Gdair. Abbandonati a se stessi. Quasi senza nulla da mangiare, dormendo dove capita. Chiusi in una trappola senza uscita. E tra due fuochi: il rischio di essere ripresi dai miliziani dell’Isis e il pericolo che i poliziotti che li stanno ricattando decidano di “venderli” a qualche gruppo di trafficanti. Come lavoratori-schiavi. L’agenzia Habeshia ha lanciato un appello alle cancellerie europee e in particolare all’Italia, che vanta saldi rapporti di antica data con la Tunisia: chiede di adoperarsi in qualche modo per convincere le autorità tunisine a concedere un visto temporaneo di accesso a tutti e sei, come richiedenti asilo. Prima che sia troppo tardi. Poi sarà l’Unhcr a prendersi cura del loro caso, cercando di trovare una soluzione stabile: lo ha assicurato anche la sede centrale di Ginevra.

E’ l’unica speranza rimasta. Sempre più flebile, via via che passano i giorni. Si tratta della vita di sei ragazzi: il più grande ha 25 anni, il più piccolo appena quindici. 

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