martedì 16 febbraio 2016

Eritrea Vista Dalla Rica Svizzera

Eritrea. Perché scappano tanti giovani




“La gente era reticente solo nel rispondere a domande relative a parenti in carcere”, ha dichiarato a Ticinonline il consigliere nazionale Thomas Aeschi, di ritorno da un viaggio in Eritrea. E ancora: “Non c’è stato modo di visitare le prigioni”, cosa che, precisa sempre Ticinonline, “le autorità di Asmara, stando a dichiarazioni della consigliera federale Simonetta Sommaruga, vietano pure al comitato internazionale della Croce Rossa”. Per il resto, tutta la descrizione di Aeschi è sostanzialmente positiva, tanto da giungere alla conclusione che i richiedenti asilo eritrei in Svizzera e in Europa sono spinti in gran parte da motivazioni economiche.
Ancora più rosea è la visione riferita dalla consigliera nazionale Yvonne Feri, pure presente nel gruppo di politici svizzeri che hanno viaggiato di recente in Eritrea: afferma che ci si è potuti spostare senza limitazioni; che ha avuto senza difficoltà colloqui con diverse persone e che i suoi interlocutori parlavano tutti in inglese; che ha avuto l’impressione che il paese attraversi una fase di sviluppo.
Nessuno sembra aver dato peso più di tanto a quella reticenza a parlare dei “parenti in carcere”. E al fatto che alla delegazione non sia stato consentito di visitare neanche una prigione. Eppure non ci sarebbe stato che l’imbarazzo della scelta: tra prigioni, centri di detenzione, campi di concentramento, strutture detentive annesse a comandi militari o di polizia, in Eritrea ci sono oltre 300 carceri. Anzi, secondo fonti della diaspora, quasi 360, su una popolazione di 5,5 milioni di abitanti. Forse, allora, bisogna partire proprio da qui. Da questo punto che la delegazioni di politici svizzeri sembra invece aver molto sottovalutato: il divieto di visitare anche una sola prigione e l’imbarazzo, ma più probabilmente la paura, della gente a parlare di queste cose. Già perché, a scavare appena un po’, anche soltanto a cercare di saperequanti e dove sono i centri di detenzione, si sarebbe scoperto che, in realtà, l’Eritrea è uno stato-prigione, dove si può essere arrestati e fatti sparire al minimo sospetto di dissenso. Proprio come denunciano da anni organizzazioni internazionali quali Amnesty, Human Rights Watch, Reporter senza Frontiere, e come ha confermato il recente rapporto della Commissione Onu, a conclusione della sua inchiesta sulla violazione dei diritti umani. Un rapporto nato non da una visita più o meno frettolosa, ma da otto mesi di indagini minuziose e, alla fine, tanto pesante da indurre le Nazioni Unite a rinnovare l’incarico per appurare se ci siano gli estremi per imputare di crimini di lesa umanità il governo di Asmara di fronte all’Alta Corte di Giustizia.
Ecco, già solo ponendosi questo problema, forse la visione del paese sarebbe apparsa meno rosea. Ma non basta. Si dice che il gruppo ha potuto muoversi liberamente, ha parlato con chiunque, che la gente non era reticente e molti si esprimevano in inglese. Sarà senza dubbio così. Che significa, però, muoversi liberamente? Muoversi liberamente vuol dire, ad esempio, poter prendere una macchina e girare il paese ovunque, a proprio piacimento e per tutto il tempo che si vuole, fermarsi dove capita o si ha interesse, anche nei luoghi più impensati. E osservare, parlare, fare confronti, discutere. “Indagare”, in una parola, la vita quotidiana ma non solo: anche i problemi, le prospettive, i sogni di ciascuno e di tutti. Non risulta che tutto questo sia consentito. Non a caso tutti i corrispondenti della stampa estera e tutte le Ong internazionali hanno progressivamente lasciatol’Eritrea dopo l’avvento della dittatura: perché non erano liberi di spostarsi, girare,chiedere e, dunque, di fare il proprio lavoro. Che cosa è cambiato da allora? Nulla. Altra cosa è se ci si muove in occasione di una visita politica ufficiale e in un ambito forzatamente ristretto. A uscire dal quale, probabilmente, si sarebbe scoperto di come molti ragazzi, specie nei villaggi più poveri del bassopiano, sappiano leggere e scrivere a stento in tigrino. Altroché inglese! Non a caso la diaspora denuncia da tempo il forte “abbassamento” del livello culturale medio dei profughi più giovani che arrivano in Europa.
Quanto alle persone ascoltate, nessuno nega che fossero disponibili. Resta da vedere se fossero anche sincere: la diffidenza e la paura sono tali che difficilmente la gente, anche se è ostile al regime, si apre davvero. Proprio per non rischiare di finire in una di quelle prigioni su cui, come ha dichiarato lo stesso Thomas Aeschi, si è mostrata molto restia a parlare.
Infine, “il paese in fase di sviluppo”. Sicuramente il regime si sta dando da fare per affermare e propagandare questo assunto, con l’aiuto anche di grosse società europee o americane, di vari governi occidentali e in parte, ultimamente, della stessa Unione Europea, propensi a “recuperare” l’immagine di Isaias Afewerki, il presidente-dittatore, di fronte alla comunità internazionale, per tutta una serie di interessi geopolitici e strategici, anche a costo di ignorare la violazione sistematica dei diritti umani in atto da anni. La realtà, però, è molto diversa. Oltre tutto, appare una contraddizione sostenere che il paese si sta sviluppando e, nello stesso tempo, che i giovani scappano per motivi economici. Ma prima che una contraddizione è un falso: i giovani essenzialmente scappano per motivi politici. Per sottrarsi alle mille forme di violenza della dittatura. Lo ha fatto rilevare anche l’ambasciatore della Ue, Christian Manahal, il quale, pur non sottovalutando le motivazioni economiche, ha precisato che questo esodo è dovuto al servizio militare che costringe uomini e donne sotto le armi per un tempo infinito. Tradotto in termini più concreti: dall’età di 18 anni ad almeno 55, a volte 60 anni. Ecco il punto: attraverso il cosiddetto “servizio nazionale”, il regime ruba la vita intera ai suoi giovani. Ed ha massacrato l’economia, facendo dell’Eritrea uno dei paesi più poveri del pianeta.
E queste sono motivazioni politiche. Non economiche.  

martedì 2 febbraio 2016

La Giornata della Memoria e la tragedia dei profughi






di Emilio Drudi

“Auschwitz non ci abbandona, ci ricorda quali orrori può compiere l’uomo”: è il passo più significativo dell’intervento fatto in occasione della Giornata della memoria dal presidente Mattarella, che ha poi aggiunto: “E’ un’illusione alzare i muri e ricercare negli Stati nazionali una inverosimile sovranità perduta: i nazionalismi generano diffidenza, rivalità e ostilità. E questa è una china pericolosa che abbiamo vissuto nel ‘900”.
Ecco, è proprio in queste parole il valore più profondo della Giornata della Memoria: ricordare per fare i conti con il passato ma anche, ancora di più, con il presente. Non seguire questa via maestra significa tradire lo spirito stesso dell’appuntamento annuale del 27 gennaio, facendone una cerimonia vuota, senz’anima. La memoria, infatti, non è, non deve essere, un esercizio sterile del ricordo. Al contrario, ha significato e vigore soltanto se diventa “assunzione di responsabilità”: se ci spinge a studiare, analizzare, a capire come mai si è potuti arrivare al “male assoluto” della Shoah. Ci si accorgerà subito, allora, che la Shoah non è stata una atrocità improvvisa, nata e finita con il nazismo. Al contrario: la Shoah ha radici antiche, in fenomeni come l’antigiudaismo religioso, la xenofobia, il nazionalismo, il razzismo che impregnano la storia millenaria dell’intera Europa ed hanno alimentato l’immaginario antiebraico: il pregiudizio e l’odio astratto, immotivato, per qualcosa che non si conosce e che viene percepito come “diverso” e, dunque, come nemico. Il nemico sul quale scaricare problemi, colpe, incertezze, insicurezza, paure.
Il massacro di sei milioni di ebrei non ci sarebbe stato senza l’accettazione cieca di questo “immaginario” da parte della gente comune: c’è questo “immaginario” alla base dell’obbedienza passiva, totale, senza chiedersi il perché, a leggi e ordini criminali, da parte di milioni di uomini e donne “normali”. O, quanto meno, alla base dell’opportunismo, del conformismo, dell’indifferenza che hanno portato a voltare le spalle di fronte alla sorte “dell’altro”. Alla sorte di milioni di “altri”. Una sorte atroce, che inizia con la soppressione dei diritti, trasformando milioni di esseri umani in “non persone”, e che arriva alla soppressione della vita stessa.
Il punto, oggi, è capire se dopo lo sterminio di un intero popolo, questo immaginario sia stato sconfitto oppure sia ancora vivo. Se, in concreto, circostanze, situazioni, pregiudizi, comportamenti, scelte, interessi come quelli che hanno portato alla Shoah siano tuttora presenti tra noi. I fatti ci dicono che non solo quell’immaginario antisemita avvelena ancora le nostre società, ma che ne sono stati coltivati altri simili, con la stessa radice: contro i rom, ad esempio, o contro l’Islam, o gli immigrati e i profughi. Contro chiunque, insomma, sia percepito come “straniero”. “Diverso”. Ovvero: alimentata giorno per giorno dalla scarsa conoscenza, dal pregiudizio, dall’egoismo, la macchina della “costruzione del nemico” continua a funzionare, creando un muro di ostilità o quanto meno di indifferenza per la sorte di una moltitudine di uomini e donne, in una spirale perversa che addormenta le coscienze ed è spesso funzionale al potere.

La vicenda dei profughi e dei migranti esplosa negli ultimi anni è emblematica. L’intero sistema che, per affrontarla, è stato messo in piedi dal Nord del mondo, dall’Unione Europea in particolare, è concepito per alzare barriere tra “noi” e “loro”, tra la Fortezza Europa e i disperati che bussano alle sue porte. Poco importa se questo fa di milioni di persone “res nullius”: esseri umani senza diritti, intrappolati tra le dittature, le guerre, le persecuzioni, il terrorismo, le catastrofi naturali, le carestie da cui fuggono e  il muro di indifferenza innalzato dal mondo ricco, agiato, libero, democratico. Esseri umani che le politiche di esclusione adottate dai “potenti” del pianeta confinano sempre più spesso in una terra di nessuno via via più estesa e periferica, fino a rendere impercettibile la loro tragedia. Desaparecidos: fatti sparire, in modo che del loro destino non si parli nemmeno e che ci sia una apparente situazione di normalità.
Non a caso proprio uomini che hanno vissuto in prima persona l’orrore delle leggi razziali e della Shoah si sono levati per primi a denunciare l’indifferenza che troppo spesso circonda la tragedia dei profughi e a contestare la barriera culturale, politica, umana innalzata nei loro confronti. Come Piero Terracina, uno dei pochissimi ebrei romani scampati ad Auschwitz. O Massimo Ottolenghi, il partigiano “Bubi” di Giustizia e Libertà, morto in questi giorni, protagonista del salvataggio di 200 ebrei. Entrambi hanno insistito con forza sul diffuso, colpevole “voltarsi dall'altra parte” di tanta, troppa gente. Proprio come è accaduto con gli ebrei.
Ma, a parte il “sentire comune”, anche le decisioni prese da numerosi governi, dalla politica in generale, mostrano sorprendenti, assurde, dolorose analogie con il periodo buio della discriminazione istituzionalizzata. Accade, tanto per citare, con i respingimenti a priori, decisi senza esaminare i singoli casi personali, ma basandosi unicamente sulla nazionalità, la provenienza, il “gruppo”: come si faceva, appunto, con gli ebrei. O, ancora, con le muraglie di filo spinato, i blocchi, le norme anti immigrazione, così simili agli ostacoli incontrati dagli ebrei dopo l’adozione delle leggi razziali in Germania e in Italia. Basti citare la tragedia della nave S. Louis, carica di mille ebrei in fuga dalla Germania ma respinti da tutti: come non vedervi un’analogia con i barconi di richiedenti asilo costretti a filtrare di nascosto tra le maglie della polizia di frontiera della Turchia? Quella Turchia alla quale l’Europa ha promesso tre miliardi di euro in cambio della blindatura dei confini per bloccare l’esodo da luoghi devastati da guerre e terrorismo come la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan. Per non dire della decisione del governo danese di confiscare i beni eccedenti la quota di 1.300 euro che i migranti portano eventualmente con sé. “Per contribuire alle spese di mantenimento e alloggio”, è la giustificazione, quasi a far passare l’idea che chissà quali ricchezze, gioielli, diamanti, i profughi portano con sé di nascosto. Proprio come la propaganda nazista e fascista diceva degli ebrei che, scacciati dalle loro case, cercavano in qualche modo di raggiungere una frontiera amica.
Allora torniamo alle parole del presidente Mattarella: “Auschwitz non ci abbandona, ci ricorda quali orrori può compiere l’uomo”. E facciamone tesoro per le nostre scelte e i nostri comportamenti di oggi: per non dover scoprire domani che stiamo costruendo giorno per giorno un altro orrore.