martedì 31 maggio 2016

Rifugiati muoiono per omissione di protezione della Comunità Internazionale

Lettera Aperta a S. Ecc. il Sig. Filippo GRANDI
all’Alto Commissario per Rifugiati


 don Mussie Zerai e L’Agenzia Habeshia,  siamo fortemente preoccupati per l’alto numero di persone che hanno perso la vita nei primi 5 mesi del 2016 tra le persone che hanno attraversato il Mediterraneo 



E’ drammatico il bilancio di morte tra i profughi e i migranti che nei primi cinque mesi di quest’anno hanno attraversato il Mediterraneo. Solo nei naufragi avvenuti nella settimana che va dal 22 al 29 maggio si calcola che abbiano perso la vita almeno 880 persone, secondo il rapporto dell’Unhcr, ma forse anche molte di più, tra 950 e 970, come indicano Medici senza Frontiere e il Comitato Nuovi Desaparecidos. Confermano questa tragedia le testimonianze che abbiamo raccolto, in Libia e in Italia, tra i sopravvissuti e tra amici delle vittime. Oltre ai quattro naufragi più noti, ad esempio, abbiamo avuto notizia da migranti arrivati in Italia tra il 27 e il 29 maggio che altre 50 persone risultano disperse dopo che un gommone partito dalla Libia con 135 migranti si è sgonfiato, inabissandosi. Altri hanno riferito della scomparsa in mare di 8 profughi caduti da un’imbarcazione sovraccarica e segnalato la morte di 4 giovani a causa di un incendio divampato a bordo di un vecchio battello. E tutto sembra confermare che il 50 per cento di queste centinaia di morti provenissero dall’Eritrea e dall’Etiopia.
Il 2016 si sta rivelando l’anno con il più alto numero di migranti morti: finora 2.510 secondo l’ultimo rapporto dell’Unhcr. Nel 2015, nello stesso periodo, le vittime registrate erano 1.855. Questi numeri evidenziano l’importanza delle operazioni di soccorso come parte della risposta ai flussi di rifugiati e di migranti attraverso il Mediterraneo e l’estrema necessità di alternative reali e sicure per le persone che hanno bisogno di protezione. Occorre che l’Unione Europea, in collaborazione con l’intera comunità internazionale, si doti di una serie di strumenti per fronteggiare questa gravissima crisi. Crisi peraltro ampiamente prevista, viste le politiche di sostanziale respingimento che sono state condotte negli ultimi venti anni. Per fronteggiare adeguatamente questo autentico esodo di popoli, oltre che un cambiamento radicale della politica del Nord del Mondo nei paesi del Sud per arrivare davvero a una pacificazione e stabilizzazione dei paesi da cui fuggono i profughi, occorrono nell’immediato un programma europeo di soccorso sul modello dell’operazione “Mare Nostrum” (magari sotto l’egida dell’Onu) e vie di immigrazione legali e protette per i rifugiati e i richiedenti asilo. Alcune misure – come visti umanitari, visti per ricongiungimento familiare, pe motivi di studio, cure mediche – sono già previsti da vari trattati e accordi europei, ma troppo spesso sono ostacolati o non funzionano. L’ultimo esempio si ha con il programma di ricollocamento dall’Italia e dalla Grecia, paesi di frontiera e di sbarco, al resto della Ue: sui 160 mila posti iniziali previsti, finora si è arrivati, tra Grecia e Italia, a “coprirne” in concreto circa 1.500 appena, proprio per le lungaggini e le difficoltà sollevate dai vari paesi dell’Unione che formalmente hanno aderito al piano. Piano che, oltre tutto, non è neanche obbligatorio, tanto che risultano una minoranza gli Stati teoricamente disponibili sui 28 dell’intera Unione Europea. Come primo passo, allora, è necessario quanto meno far funzionare a pieno regime l’accordo europeo di ricollocamento che, oggi come oggi, intrappola migliaia di richiedenti asilo nel territorio greco o italiano e tradisce la fiducia e le speranze dei tanti giovani rifugiati che hanno creduto in questo accordo, oltre a peggiorare ulteriormente il sistema di accoglienza dei paesi di sbarco, peraltro già di per sé carente ed estremamente penalizzante.
Finora, quest’anno, oltre 211 mila migranti sono sbarcati in Europa. Quasi tre quarti sono arrivati dalla Turchia in Grecia prima della fine di marzo. Più di 48 mila sono giunte in Italia,  un numero pari a quello registrato lo scorso anno nei primi cinque mesi (47.463). La rotta del Mediterraneo Centrale, dal Nord Africa all’Italia, resta la più pericolosa, con circa 2.000 vittime: un tasso di mortalità di quasi 1 su 24. Tutto ciò perché profughi e migranti sono costretti a rivolgersi alla rete dei trafficanti per proseguire la loro fuga dalle situazioni estreme che li hanno costretti a scappare. Dalle dichiarazioni dei sopravvissuti si ha la conferma che centrali di traffico sono attive in vari luoghi lungo la rotta. In particolare in Sudan per chi proviene dal Corno d’Africa, dal Niger ed anche dall’Africa sub sahariana occidentale ed è diretto verso la Libia, dove molti rimangono intrappolati o addirittura prigionieri di centri di detenzione governativi prima di potersi imbarcare per l’Europa. E in Libia la loro vita è quasi sempre un inferno: si moltiplicano i racconti di maltrattamenti e violenze, in balia dei trafficanti ma anche dei miliziani a guardia dei centri di detenzione. Ne sono vittime in particolare le donne e non solo per stupri occasionali: alcune hanno raccontato di essere state ridotte in un verso e proprio stato di schiavitù sessuale. Non sfuggono a questo trattamento i ragazzi minorenni: il loro arrivo è  in costante aumento, molti con alle spalle gravissimi abusi subiti. E’ il caso, ad esempio, della ragazzina di appena 14 anni in stato di gravidanza proprio a causa di uno stupro subito in Libia.
Appare di tutta evidenza che di fronte a tutto questo non serve e non ha senso continuare ad alzare dei “muri” come ha fatto finora l’Europa. I trafficanti sono in grado di aggirare ogni barriera. E’ ormai quasi un anno, ad esempio – come evidenziato in diversi documenti e prese di posizione – che l’Agenzia Habeshia ha segnalato un significativo cambio di rotta per gli Eritrei, gli Etiopi, i Somali, i Sudanesi e i Sud Sudanesi che, diretti verso il Mediterraneo partendo dal Sudan, vengono indirizzati non più verso la Libia ma verso l’Egitto come punto di imbarco. Non a caso, mentre nel 2015 gli eritrei erano circa il 25 per cento dei profughi arrivati in Italia dalla Libia, quest’anno in maggioranza sono nigeriani o gambiani.
C’è però un altro aspetto da sottolineare: mentre tutta l’attenzione è puntata sul Mediterraneo a causa del moltiplicarsi degli sbarchi e, purtroppo, dei naufragi e delle vittime, ci sono numerose altre situazioni a rischio quasi sconosciute o comunque sottaciute ma che, spesso strettamente connesse a quanto accade appunto nel Mediterraneo, dimostrano come la catastrofe umanitaria a cui stiamo assistendo abbia ormai dimensioni globali. Habeshia ha elaborato, in proposito, un promemoria su alcuni casi tra i più emblematici. Per facilitare la consultazione, nell’elencare i vari episodi, è stato seguito l’ordine alfabetico dei paesi interessati, anche se ovviamente non corrisponde necessariamente a un “ordine di gravità”. Del resto, tutte le situazioni segnalate sono gravi ed urgenti: anzi, ciascuna può precipitare da un momento all’altro e, dunque, diventare magari più grave e urgente delle altre. Seguendo i vari episodi, si potrà constatare che oltre a problemi riguardanti una o un piccolo gruppo di persone, ce ne sono alcuni di carattere più generale e perciò sicuramente di più difficile e lunga soluzione. Ad esempio, quelli dell’Egitto e del Sudan. Si è ritenuto opportuno inserirli comunque in questo promemoria nella convinzione che, anche in questi casi, l’Unhcr può svolgere un ruolo molto importante, se non altro per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale e le cancellerie occidentali.  

– Arabia Saudita
Due i casi da segnalare: profughi segregati e ex diplomatico abbandonato
Ex diplomatico eritreo abbandonato. La vicenda è già nota all’Unhcr. Habeshia l’ha sollevata qualche mese fa, ma finora quell’ex diplomatico eritreo non ha ricevuto nessuna forma di protezione. L’ambasciata francese a Riad si è interessata al caso, chiedendo all’Unhcr la documentazione relativa ma non risulta che abbia ricevuto alcunché, bloccando così di fatto l’intenzione manifestata da Parigi di concedere un visto umanitario a questa persona per consentirgli di accedere a una forma di protezione internazionale. La situazione potrebbe sicuramente sbloccarsi con una più attiva e stretta collaborazione dell’Unhcr con l’ambasciata francese di Riad.
Profughi segregati. Quattro giovani eritrei vivono in una condizione di totale segregazione. Hanno già ricevuto una visita da parte di un funzionario dell’Unhcr  ma ormai, dal 17 agosto 2015, nessuno si occupa più di loro. Attualmente sono rinchiusi in una struttura detentiva, con la pressoché totale negazione della libertà personale: prigionieri che possono lasciare la loro cella per non più di 30 minuti al giorno. Si trovano in questa situazione, a seconda dei casi, da un periodo variabile tra un anno e 4 mesi, nell’isola di Sarsan

 Botswana e Tanzania. Un gruppo di esuli eritrei corre il rischio di essere riconsegnato ad Asmara. Sono tutti campioni dello sport, fuggiti in occasione di trasferte all’estero delle rispettive squadre.
Botswana. Nell’agosto del 2015 dieci componenti della nazionale di calcio, dopo una partita valida per le qualificazioni della Coppa del Mondo, hanno scelto di chiedere asilo politico, rifiutandosi di rientrare in Eritrea. Da allora, in pratica, nessuno si è più preoccupato della loro tutela e del loro futuro. Ormai sono allo stremo, mentre si moltiplicano le pressioni di Asmara perché il governo beciuano ne decreti l’espulsione e il rimpatrio forzato.
Tanzania. Il caso riguarda tre giovani, due dei quali ex giocatori della nazionale di beach volley. E’ una vicenda simile a quella del Botswana, ma molto più grave e urgente perché le autorità della Tanzania hanno rigettato le richieste di asilo.
I tre si chiamano T. B. T; T. S. H; G. W. M. e si trovano attualmente a Dar Es Salaam.
La loro prima domanda, sottoposta all’ufficio dell’Unhcr in Tanzania, risale al 20 aprile 2015, alle ore 9,30. Nei giorni scorsi è arrivata la risposta negativa da parte della Tanzania. Appare evidente, dunque, la necessità di un intervento presso la delegazione Unhcr locale o africana.
  
– Egitto. Oltre alle migliaia di profughi intrappolati nel paese dopo essere arrivati dal Sudan (eritrei, sudanesi, somali, etiopi dell’Oromo e dell’Ogaden), il 27 maggio 2016 è stato segnalato all’agenzia Habeshia un gravissimo caso di sequestro di gruppo. La vicenda riguarda 14 giovani eritrei che si trovavano in Sudan e sembra ricalcare sequestri analoghi che si sono registrati a partire dal 2009 in Sinai e negli anni successivi nella fascia meridionale del Sudan, tra il confine eritreo e la zona di Kassala.
Secondo quanto ha raccontato uno dei 14, Mebrathon, che è riuscito a fuggire, lui e i suoi compagni sono stati avvicinati separatamente a Kharthoum, nella zona di Endrma, da un ragazzo forse eritreo o etiope di nome Samuel (Mamush) il quale, insieme a un complice sudanese (Ahmed), li ha indotti ad andare in l’Egitto prospettando loro un lavoro. La partenza da Khartoum è avvenuta il 28 gennaio. Superato il confine, la promessa di lavoro si è rivelata un inganno: gli egiziani ai quali i 14 giovani erano stati affidati li hanno sequestrati e condotti in una prigione improvvisata, in una località sconosciuta, pretendendo 30 mila dollari da ciascuno per il rilascio e sottoponendoli a un trattamento durissimo per “convincerli” a pagare. Pare che qualcuno si sia piegato al ricatto e sia stato trasferito altrove. Altri (forse due o tre) sarebbero stati uccisi proprio perché si rifiutavano o comunque avevano detto di non essere in alcun modo in grado di trovare la somma richiesta. Dopo circa cinque mesi di sequestro, M.H è riuscito a fuggire ed ha raggiunto Assuan. Da qui ha potuto proseguire fino al Cairo, dando poi l’allarme all’agenzia Habeshia. Afferma di non sapere dove sia con precisione la base-prigione dei sequestratori ma che si trova sicuramente a sud di Assuan, città dalla quale dista tre giorni di cammino. In definitiva, dunque, una località nel deserto tra il confine sudanese e Assuan.
  
– Etiopia - Dubay  
Quattro giovani ex militari chiedono che l’Unhcr si occupi del loro caso. Inviati dal regime in Dubay per un ciclo di istruzione militare come piloti, dopo aver concluso il corso presso la scuola di volo, non sono rientrati in Eritrea ma hanno raggiunto l’Etiopia, dove hanno chiesto asilo come rifugiati.

– Filippine  
Sette donne con alcuni bambini sono attualmente trattenute in una casa protetta per vittime della tratta sessuale. Doveva essere probabilmente una sistemazione provvisoria perché si tratta non di vittime della prostituzione ma di richiedenti asilo arrivate nelle Filippine seguendo la via di fuga del Sud Est Asiatico e dell’Estremo Oriente. Da mesi, invece, vivono in pratica in una condizione di detenzione, senza alcuna possibilità di conoscere quale potrà essere il loro futuro e senza alcuna notizia, peraltro, della loro richiesta di asilo come rifugiate. A consegnarle alla casa protetta è stata l’Unhcr. Da allora nessuno si è più interessato di loro, neanche per assicurare un minimo di informazioni.

– Gibuti
Qui i problemi sono due.
Richiedenti asilo. Ci sono decine di richiedenti asilo e rifugiati che attendono una forma di accoglienza in paesi terzi disposti ad accordare loro una forma di protezione internazionale. L’Unhcr si sta già interessando al caso ed ha compiuto degli sforzi in questo senso: si tratta ora di sollecitare i paesi che sono nella condizione di ospitare queste persone perché diano risposte concrete nell’arco di un tempo ragionevole. Per alcuni di questi profughi i tempi di attesa si sono prolungati oltre ogni aspettativa, superando ormai gli otto mesi. E ad ogni giorno che passa muore un po’ di più anche la speranza.  
Prigionieri di guerra. Ci sono almeno 19 militari eritrei prigionieri di guerra ormai da otto anni, anche se la guerra è finita ormai sei anni fa, nel 2010. Stando alle ultime informazioni, sono nel carcere di Negad, dimenticati e abbandonati da tutti. Sono stati catturati tra il 10 e il 13 giugno 2008. Come è noto, nel 2010, con la mediazione del Qatar, si è finalmente firmata la pace. Era da aspettarsi che a quel punto i prigionieri di guerra delle due parti venissero liberati. Non è stato così. Asmara non ha rilasciato i militari di Gibuti detenuti, negando anzi di averne anche dopo che la presenza di gibutini trattenuti in campi di concentramento in Eritrea è stata provata nel 2012 da un’inchiesta del Consiglio di sicurezza dell’Onu, forte delle testimonianze di due soldati che erano riusciti ad evadere e a raggiungere il Sudan. Gibuti, a sua volta, ha trattenuto i prigionieri eritrei come “arma di scambio” e, in definitiva, come ritorsione. I 19 incarcerati a Negad sono vittime di questo rimpallo incredibile. Nei mesi scorsi Asmara – smentendo in pratica se stessa e confermando i rapporti dell’Onu – ha deciso di rilasciare quattro prigionieri gibutini che aspettavano di essere liberati da ben sei anni. Si sperava che, sulla scia di questa decisione, anche i 19 eritrei di Negad potessero tornare in libertà. Gibuti, invece, non ne ha rilasciato nemmeno uno. Anzi, il portavoce del governo ne ha negato addirittura l’esistenza ed anche Asmara è come se li avesse cancellati: non riconosce che Gibuti abbia prigionieri di guerra eritrei.
– Grecia
Sei eritrei, in prevalenza donne e bambini, sono bloccati da mesi in una delle isole greche, ospiti di un centro di detenzione. Chiedono da tempo di essere inseriti in un programma di ricollocamento. Le loro istanze finora sono state sistematicamente ignorate.

– Libia. I controlli sono stati intensificati e sono iniziati rimpatri forzati di massa, senza porsi problemi sulla sorte che attende i profughi nei paesi d’origine. Si ha notizia, in particolare, di un gruppo di 204 eritrei che hanno già ricevuto la notifica di espulsione. Fuggire è impossibile: la polizia e i miliziani di guardia ai centri di detenzione sparano a vista. Per uccidere, come dimostrano i cinque morti e i numerosi feriti registrati all’inizio di aprile durante un tentativo di evasione da Al Nasrm, presso Zawia. E la vigilanza o i rastrellamenti lungo le piste che arrivano dal deserto oppure, ancora di più, nei punti di imbarco, continuano a riempire i campi profughi. Solo il 24 maggio la guardia costiera e la polizia hanno catturato oltre 800 migranti che si erano appena imbarcati e stavano iniziando la navigazione. Secondo alcuni media libici, sarebbero stati gli stessi trafficanti a segnalarne la partenza alle forze di sicurezza, forse per liberarsi di centinaia di profughi che, dopo essersi fatti comunque versare il “prezzo” della traversata, non sapevano più come “gestire” a causa della mancanza di barche o gommoni in grado di raggiungere almeno il limite delle acque territoriali. Altri 766 sono stati intercettati il giorno 26  a Sabratha (550) e Zuwara (216), due delle principali basi di partenza verso l’Italia; 320 il giorno 27, sempre a Sabratha (200) e Zuwara (120).

– Oman.
Una ragazza e un ragazzo eritrei profughi, feriti gravemente sotto i bombardamenti nello Yemen, dopo i primi soccorsi sono stati trasportati nell’Oman perché potessero avere cure mediche più adeguate. Dopo essere stati entrambi a lungo ricoverati presso l’Al Wattaya Muscat Hospital Khoula, ora vivono a Muscat Sultanate, ma le autorità dell’Oman stanno esercitando su di loro forti pressioni per rimandarli nello Yemen, nonostante questo paese sia tuttora sconvolto dalla guerra. L’ufficio Unhcr ha ricevuto più volte sollecitazioni – sia da parte di Habeshia che di altre organizzazioni – per trovare una sistemazione adeguata in un paese disposto ad accogliere queste persone, assicurando loro una forma di protezione internazionale. Finora non ci sono state risposte definitive ed esaurienti.

– Sudan. E’ in corso la deportazione verso l’Eritrea di centinaia, migliaia di profughi: giovani che vengono così riconsegnati alla dittatura da cui sono scappati. Li aspettano anni di galera, torture e per qualcuno forse la morte stessa. Da settimane la polizia ha intensificato i controlli e iniziato una serie di rastrellamenti a tappeto a Khartoum e nelle altre principali città dove si concentrano i rifugiati in transito verso la Libia e l’Egitto. Tra il 16 e il 18 maggio, solo a Khartoum ne sono stati catturati quasi mille: 380 li hanno ricondotti di forza al confine nel giro di un paio di giorni e gli altri sono rinchiusi in un centro di detenzione, in attesa di seguire la stessa sorte. Le retate continuano, allargandosi a macchia d’olio dalla capitale. Uno dei prossimi obiettivi potrebbe essere Ondurman, la tappa finale in Sudan prima di intraprendere la traversata del Sahara verso nord.

– Turchia. Ad Ankara un profugo eritreo sta vivendo una situazione simile a quella del pilota in carcere a Gibuti. E’ arrivato con un aereo di linea, deciso a chiedere asilo, ma è stato fermato al posto di frontiera dell’aeroporto. Da allora vive in pratica segregato nella “terra di nessuno” dei servizi aeroportuali: non può proseguire la fuga e indietro non vuole tornare. Intanto il governo turco sta trattando con Asmara un accordo di riconsegna di tutti i profughi eritrei intercettati in territorio turco. Se si arriverà alla firma, la sorte di quel giovane è segnata. Così come quella di altri eritrei giunti in Turchia con la speranza di passare poi in Grecia per raggiungere il Nord Europa.

don Mussie Zerai

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